II. FILOSOFIA MORALE E UTOPIA IN RUGGERO BACONE
II.1. Francescanesimo riformatore
e riformato nell’esperienza di Bacone
Pur nello svolgimento peregrino del suo cammino di riforma, Bacone presenta nella sua opera due punti fermi, i cardini
etici del suo pensiero e della sua prassi: l’eliminazione delle cause di errore e l’utopia della respublica fidelium. E’ in parte riduttivo limitare i punti fermi del pensiero baconiano a tali asserzioni,
ma senza tali presupposti non si potrebbero peraltro comprendere i contenuti particolari della sua dottrina, che solo apparentemente,
rispetto ad altri sistemi filosofico-teologici del secolo XIII, costituisce l’abbozzo di una teoria altrimenti più organica.
Circostanze storiche e limitazioni personali vollero che le opere cosiddette enciclopediche di Bacone costituissero
semplicemente un preambolo allo scriptum principale, che egli si proponeva magniloquentemente
di redigere per sollecitare il consenso del pontefice al suo vasto programma; infatti la morte di colui che sembrava aver
più apprezzato o perlomeno esortato il proseguimento della sua attività, ossia il pontefice Clemente IV, (1265-1268), finì
col frenare gli entusiasmi di Bacone, sempre più stretto entro le angustie normative e gerarchiche dell’ordine francescano.
Egli aveva fatto ingresso nell’ordine presumibilmente intorno al 1257 e questa decisione si comprende bene alla luce
di quella rivoluzione interiore che lo aveva indotto ad abiurare un metodo dialettizzante, di cui aveva appreso gli strumenti
nell’università di Parigi e precisamente presso la facoltà delle arti.
Tali strumenti non erano di per sé negativi, anzi erano costituiti da un complesso di testi e di cognizioni che andavano
dall’aristotelismo neoplatonizzante a certe propaggini esoteriche della cultura araba, passando attraverso la logica
aristotelica, ma ciò che Bacone rimproverava a molti dotti del tempo era l’uso speculativamente deteriore di questi
mezzi, quasi che il fine dell’attività di commento si dovesse esaurire nel commento stesso.
Per questo motivo la sapienza non poteva e non doveva essere aliena da preoccupazioni, bisogni e capacità tecniche
determinate, ponendosi all’opera nella storia e di fronte al mondo dell’esperienza immediata; Bacone aveva ritrovato
in particolare le tracce di questa antica sapienza pratica nel Secretum secretorum,
con cui si riteneva che Aristotele avesse potuto servire, ispirandosi al modello salomonico, le necessità contingenti, di
vita e di politica bellica, di Alessandro Magno[1].
Questa immagine dello Stagirita, falsata dal mito, veniva paradossalmente a confermare un’intuizione interpretativa
che stava a monte del progetto di Bacone: la collaborazione del re e del filosofo, il superamento dell’opposizione tra
verità e praticità nella scienza, con tutti i suoi effetti dirompenti nella storia.
Perciò Bacone, di fronte agli esempi illuminanti del passato, non riusciva a tollerare l’inerzia e l’ignavia
cui il sapere era costretto, nonostante l’immensa potenzialità d’azione che da esso poteva scaturire; fu proprio
a Parigi che egli maturò criticamente l’opposizione a certi metodi della scolastica, che ivi aveva appreso, per poi
fare ritorno a Oxford, dopo aver definitivamente abbandonato il sensus vulgi, più
volte deprecato nelle sue opere[2].
Fu così nel ventennio tra il 1247 e il 1267 che si svolse l’attività più densa, di ricerca e di compendio, dello
stesso Bacone, con il progetto mai realizzato di una enciclopedia delle scienze da consegnare al pontefice; inizialmente l’ingresso
nell’ordine francescano non costituì un ostacolo, anzi doveva servire ad appoggiare una costante applicazione allo studio
e alla ricerca che egli non avrebbe potuto adempiere se non avendo un ordine o una istituzione alle spalle.
E non si deve peraltro trascurare il motivo della sua scelta spirituale e intellettuale, in primo luogo il legame con
una tradizione francescana assai forte ad Oxford, che aveva visto, prima di Bacone, illustri rappresentanti dottrinali in
Roberto Grossatesta e Adamo di Marsh, il primo francescano ad insegnare ivi come magister
regens di teologia dal 1247 al 1250 circa.
Tuttavia non importa tanto sapere se Ruggero abbia direttamente conosciuto o meno Grossatesta, fatto alquanto improbabile
perché questi era già vescovo di Lincoln dal 1235, ma piuttosto confermare, attraverso le opere del 1247-1267, che egli stava
ormai assimilando, ampliando e approfondendo il complesso delle idee scientifiche, filosofiche e filologiche entro cui, sulla
scia di Grossatesta, si ponevano gli studi degli altri francescani di Oxford.
Oltre al consenso dottrinale che i francescani ispiravano nel centro oxoniense, sollecitando disparate indagini filosofiche
e scientifiche, si presentava l’ispirazione stessa dell’ordine, la sua vocazione precipua nel mondo medievale
a partire dalla predicazione di san Francesco. L’adesione al mondo del simplices
doveva originariamente costituire il terreno fertile della predicazione, la risposta immediata all’ansia di rinnovamento,
anzi più drammaticamente, di rigenerazione, cui i francescani avevano aderito quale ordine al servizio della Chiesa, pur rimanendo
fedeli alle proprie umili radici. Successivamente, l’assunzione di magisteri dottrinali sempre più prestigiosi, non
solo in seno all’ordine ma anche al di fuori di esso, ossia nelle università, fece sì che il disegno e la regola originaria
del santo di Assisi fossero in parte traditi a favore di una applicazione meno rigorosa della lettera della regola, ma più
fedele a ciò che la storia indicava quale svolgimento di un progetto divino, pur imperscrutabile nei suoi sviluppi futuri.
Come suggerisce Alessio[3], il francescanesimo di Bacone è ben poco affine allo spirito originario, infatti solo successivamente si affermò nell’ordine
la necessità di congiungere il sapere alla predicazione, anche perché era urgente confrontarsi con la vocazione eminentemente
dottrinale dei rivali domenicani per adempiere degnamente la propria funzione nella Chiesa.
Ruggero, da dotto, non poteva sbarazzarsi della propria cultura e della propria scienza, quando queste erano già prepotentemente
entrate nell’ordine, tanto da rendere ai suoi occhi la direzione del francescanesimo ancora più rispondente ai propri
caratteri originali e anche ai nuovi bisogni della storia.
Bacone sotto il generalato di san Bonaventura, poteva considerare positivamente l’ingresso nell’ordine
francescano “proprio perché l’ordine, adulto ormai ed uscito dalla beata ingenuità delle origini, era entrato
nell’età provvidenziale dei doctores”[4].
Il francescanesimo, che si era proposto di rinnovellare la Chiesa e il popolo di Dio, tornando alla vita e alla morale
evangelica delle origini, aveva, per così dire, parzialmente esaurito questo compito nel preciso frangente storico della vita
del fondatore, così come la Chiesa dalle sue prime origini aveva mutato il proprio ordinamento; in questo senso Chiesa e francescanesimo
si trovarono accomunati da un percorso evolutivo, differente nella lunghezza ma analogo nei mutamenti di rotta, per cui Bacone
e Bonaventura furono, nonostante le apparenze, sostanzialmente in accordo sui necessari cambiamenti cui l’ordine si
doveva piegare per rimanere vittorioso nel tempo e nella storia.
Il tradimento della regola originaria si rivelava così in tutto il suo valore strumentale, dal momento che diversi
erano i mezzi che, di epoca in epoca, consentivano all’ordine di esplicare e raggiungere volta per volta i propositi
necessari.
Il cammino della Chiesa e quello del francescanesimo si rivelavano così simili nei contenuti e nelle soluzioni che
la storia proponeva: da una piccola comunità di uomini giusti ma semplici e incolti, che avevano abbandonato la loro terra
e le loro famiglie per diffondere il messaggio evangelico, ai dottori della Chiesa, che avevano destinato tutte le proprie
risorse morali e intellettuali allo studio della parola di Dio. Ormai non si poteva più recedere da una direzione del genere,
ma gli spirituali, che volevano fortemente un ritorno al francescanesimo originario,
non si accontentavano di essere semplicemente una frangia poco tollerata dell’ordine: i chierici dotti, promossi ai
ranghi più elevati un tempo riservati agli ex-laici, simplices et illetterati,
potevano ancora accettare una spinta estremistica, proveniente da coloro che si sentivano rifiutati e traditi, ma invece questi
sentivano di non appartenere più a un ordine e a una regola che non erano quelle originarie.
Bonaventura, quale generale dell’ordine, aveva il dovere di contenere queste spinte centrifughe, adoperandosi
per una mediazione che conservasse l’unità, ma era ben difficile giustificare il salto dalla paupertas e dalla simplicitas delle origini ai dottori dell’età
presente, quasi che la fecondità del messaggio francescano, così ricco nella sua armata nudità, potesse andare irrimediabilmente
perduta[5].
In realtà per Bonaventura il salto non era senza ritorno, il consortium
fra semplici e sapienti era piuttosto un problema incarnato in una situazione attuale ma provvisoria, il cui esito era ancora
tutto da definire; ma già qui ci si poneva sul piano di una sapienza che trascendeva quella umana e che era, quindi, appena
intelligibile all’uomo, fosse egli dotto o semplice. Ed è anche qui che interveniva l’adesione baconiana all’esperienza
del passato: laddove in Bonaventura la storia si configura come un continuum i
cui salti segnano i passaggi provvidenziali, le “rivoluzioni” necessarie per mantenere l’ordine divino in
terra (e ne è cifra esemplare il saldo dall’Antico al Nuovo Testamento), Bacone, non senza qualche analogia con Bonaventura,
ma aderendo più intimamente al messaggio dei francescani di Oxford, configura il movimento dal piano delle origini a quello
dello sviluppo ulteriore come un circolo “senza soluzione di continuità con l’origine”[6].
La stessa scienza trova la sua origine e la sua verifica nel mondo dell’esperienza, quindi nella sfera dei bisogni
pratici, immediati e concreti; è un modo piuttosto serpentino per arrivare alle istanze dei simplices, cioè non rispondendovi direttamente in seno all’ordine, ma proponendo un ben più audace e radicale
programma scientifico come atto di riforma morale, che non solo Bonaventura avrebbe visto con sospetto.
Infatti il sistema bonaventuriano godeva di una sua autonomia teoretica che non consentiva alcuna deroga e, tantomeno,
finalizzazione alla prassi: piuttosto sarebbero stati i semplici delle origini a essere trasformati in dottori e in teologi.
Bacone, pur muovendosi con difficoltà nel mezzo delle rivendicazioni dei diversi partiti, ebbe il merito di portare
nel terreno della scienza un’experientia spesso dimenticata per un reale
mentale di cui non si conoscevano ancora i termini, muovendo il suo discorso da implicazioni e verso conclusioni esclusivamente
morali.
Bonaventura, come era stato tiepido di fronte alle richieste degli spirituali,
pur condividendone il richiamo all’umiltà, fu analogamente attento alle perniciose infiltrazioni filosofiche nell’unità
del sapere teologico, motivo per cui non poteva non vedere con sospetto taluni atteggiamenti che parevano spingersi troppo
oltre i limiti dell’ortodossia. Di qui la necessità di controllare l’attività dei confratelli a partire dalle
Consitutiones Narbonenses del 1260, con le quali essi non potevano pubblicare alcun
nuovo scritto fuori dall’ordine se esso non fosse stato prima esaminato dal ministro generale o provinciale.
Ed è proprio da questo momento che la libertà di Bacone subisce una prima limitazione, di fronte all’obbligo
di chiedere l’approvazione delle sue ricerche e delle sue opere per renderle pubbliche all’esterno.
Nell’Opus tertium del 1267 egli accenna così alla sua situazione di
libertà controllata:
Et certe
si potuissem libere comunicasse, ego pro fratre meo scolari, et allis amicis meis carissimis multa composuissem. Sed quando
disperavi de communicatione neglexi componete …[7]
Per Bacone non c’è sapere senza comunicazione e collaborazione e le disposizioni di Barbona contribuivano a minare
radicalmente l’utopia stessa della respublica fidelium, fondata sul consorzio
di sapere, potere e fede, da cui l’ideale della sacra potestas delle scienze.
La politica dell’ordine, dopo le Constitutiones Narbonenses, costringeva
Bacone a una ribellione positiva, cioè a una forma di trasgressione sentita come unico mezzo per aderire più intimamente non
solo alla regola originaria, ma anche al cristianesimo di cui il francescanesimo stesso era espressione; si apriva pertanto
il conflitto tra la contraddittoria cristianità politica della Chiesta e il cristianesimo sapienziale, ma non per questo meno
politico, di Bacone.
La cristianità poteva essere il dispiegamento progressivo del messaggio evangelico in situazioni storiche determinate,
che tuttavia non doveva esaurire il messaggio stesso; anzi era proprio la rivelazione cristiana a suggerire la perpetua potenzialità
di trascrizione in forme nuove del messaggio divino, quando la storia imponeva nuove condizioni. La soluzione baconiana tentava
di riportare nell’alveo del cristianesimo originario, ma rinnovato, tutte quelle acquisizioni culturali, politiche,
scientifiche, filosofiche e religiose giunte da poco in Occidente e guardate con sospetto dalle gerarchie tradizionali di
dottori; vinse in teologia la difesa della peculiarità cristiana, arroccata su una posizione di insostenibile isolamento,
ma la storia successiva riuscirà a infrangere sia la difesa di una tradizione di origine teologica, refrattaria alle scienze,
sia la subalternazione eterogenea della scienza, della tecnica e del diritto dei popoli extralatini al modello riformato di
cristianesimo in cui Ruggero aveva sperato di farli confluire per la salvezza di tutti[8].
II.2 Bacone
e l’aristotelismo
La
riforma di Ruggero doveva, in teoria, tenere ampiamente conto del concetto di scienza proposto da Aristotele, benché la sua
nozione di aristotelismo dovesse risultare necessariamente falsata dall’aura mitica effusa dai testi dello Stagirita,
autentici e non, giunti in Occidente. In primo luogo bisogna constatare l’approccio tradizionale di Bacone ad Aristotele,
quando egli lesse e commentò nella facoltà delle arti di Parigi, tra il 1241 e il 1246, la Fisica e la Metafisica, ben conoscendo anche le altre opere di filosofia
e di storia naturale, in un momento in cui gli statuti del 1215 non venivano di fatto più rispettati e il vento spirava ormai
a favore del Filosofo. In secondo luogo, sempre negli anni parigini e poi ad Oxford, egli conobbe un altro Aristotele, la
cui dottrina originaria era “contaminata” da testi non autentici, aventi implicazioni non troppo remote con certo
neoplatonismo di marca orientale.
Bacone intendeva così riportare alla luce Aristotele in una integrità storica, che supponeva realmente permeata ab origine da elementi ellenici e orientali, mentre essa era frutto di un complesso
dottrinale posteriore. Come si deve perciò intendere l’aristotelismo di Ruggero Bacone e se e in che modo influenzò
la sua vocazione di riformatore delle scienze?
Come è stato sottolineato da parecchi studiosi, Bacone non è tanto interessante per le sue dottrine filosofiche, quanto
per l’intuizione e lo spirito profetico che accompagnano singolarmente il suo programma e la sua opera. Non si deve
peraltro dimenticare che solo tra il 1905 e il 1941, grazie all’edizione di Steele dell’Opera hactenus inedita, sono stati raccolti i commenti ad Aristotele dell’epoca parigina e altri scritti
filosofici, come quelli di logica e di grammatica (Summa grammatica, Summa de sophismatibus
et distincionibus, Summule dialectices), che arrivavano così a illustrare l’organico insegnamento di Bacone delle
discipline del trivio e quadrivio nella facoltà delle arti parigina.
In realtà non fu solo il concetto aristotelico di scienza a ispirare Bacone; piuttosto la natura stessa della sua opera
e, in particolare, il suo vasto programma di riforma degli studi si erano rifatti alle fonti più disparate, per cui sarebbe
azzardato sopravvalutare l’insegnamento di un aristotelismo che, oltretutto, non corrispondeva all’originale.
Fu proprio la leggenda della collaborazione di Aristotele e di Alessandro Magno a confermare Bacone nel suo proposito
di restaurazione della sacra potestas delle scienze, non solo di quelle del passato,
ma anche del presente e del futuro, facenti parte di una rivelazione divina di cui l’uomo si doveva riappropriare.
La filosofia morale entra a pieno diritto nel panorama baconiano delle scienze, insieme alle lingue, alla scienza sperimentale,
alla matematica e all’ottica che avevano una denotazione più marcatamente oggettiva[9]; contrariamente ad Aristotele, egli pensa ad una enciclopedia delle scienze rispetto alle quali la filosofia morale ne sia
il fine e il compimento, mentre il valore che lo Stagirita aveva attribuito all’etica era subordinato, anzi asservito,
a un’attività pratica, che ne inficiava il valore teoretico. In Aristotele le scienze pratiche riguardano, infatti,
la condotta umana e il fine che gli uomini intendono perseguire attraverso essa, sia come individui sia come membri della
società politica; per tale motivo l’etica e la politica sono gerarchicamente inferiori alle scienze teoretiche, dove
il sapere è fine a se stesso in senso assoluto[10].
Aristotele privilegia senz’altro l’attività del nous
o intellectus, quale facoltà più elevata dell’uomo
in grado di procurare la suprema felicità; quindi l’attività poetica più elevata è quella della scienza, cioè della
conoscenza concettuale, certa ed evidente di una cosa per le sue cause necessarie, a partire dai suoi principi.
La scienza somma, cui tutte le altre sono subordinate, è la metafisica e quando una scienza deduce da un’altra
i principi su cui erigersi, si dice che essa è subordinata. La conoscenza scientifica non è, per Aristotele, ordinata per
sé a qualcosa d’altro, essendo la somma beatitudine dell’uomo; nulla impedisce, tuttavia, che si usi la scienza
anche per i vantaggi che essa può procurare, ma tutto ciò rimane estrinseco alla natura universale e per sé necessaria di
essa, cioè è aristotelicamente per accidens.
In parte Aristotele escluse dalla scienza il lato concreto, contingente e sperimentale dell’essere, per cui si
può vedere, a questo punto, quanto Bacone fosse lontano dall’ispirarsi al vero Aristotele non tanto per la considerazione
delle scienze e delle loro relazioni, ma soprattutto per la somma dignità attribuita alla filosofia morale. Aristotele poteva
costituire un modello per la quantità di conoscenze coltivate e trattate al suo tempo, ma non per lo sviluppo monografico
che aveva dato a ciascuna di esse.
Ruggero Bacone nutriva, infatti, una considerazione singolarmente organica del sapere, dove ciascun momento e ciascuna
disciplina trovavano appropriata collocazione in virtù dei loro esiti; egli era convinto che Aristotele avesse effettivamente
congiunto la speculazione alla prassi, ma una tale illusione faceva parte del mito; pertanto egli non poteva non pensare ad
una scienza che, come conoscenza della natura e della capacità operativa dell’arte, permettesse di intervenire sulla
natura e di renderla utile all’uomo, aprendo vie mai tentate. Ed è proprio l’insistenza sull’operatività
a far emergere il carattere schiettamente “magico” della scienza baconiana, non certamente legato all’ambito
della frode, dell’arbitrio e dell’ignoranza, da lui sempre esecrato, ma alla magia naturale dell’uomo, in
possesso della ragione e degli strumenti conoscitivi di una filosofia intesa come rivelazione[11].
Tali sono le conclusioni che si possono trarre, rispetto ad Aristotele, dalla morale illustrata e professata da Bacone,
ma egli era, nonostante tutto, convinto che l’aristotelismo fosse la filosofia dell’avvenire, opportunamente corretta
e interpretata, prendendo così le distanze dal movimento averroisti, sorto in quella stessa facoltà delle arti dove egli aveva
studiato e insegnato non molto tempo prima.
Bacone ritiene, infatti, che gran parte degli errori attribuiti ad Aristotele siano dovuti alle pessime traduzioni
latine e ai suoi commentatori:
Certus
igitur sun quod melius esset latinisi, quod sapientia Aristotelis non esset traslata, quam tali obscuritate et perversitate
tradita … Si enim haberem potestatem super libros Aristotelis ego facerem omnes cremari, quia non est nisi temporis
amissio stadere in illis et causa errori set multiplicatio ignorantiae …[12].
Per questo motivo è giusto che i latini consultino direttamente i testi aristotelici in lingua originale o in una traduzione
più fedele che rispetti il valore programmatico della linguarum cognitio della
riforma di Bacone.
Nonostante le ambizioni di fedeltà testuale, Bacone interpreta scorrettamente alcuni punti della dottrina aristotelica,
come quello sull’eternità del mondo; egli è assolutamente convinto che lo Stagirita non abbia insegnato alcunché del
genere, perché ciò sarebbe stato un errore manifesto in filosofia, tantomeno accettabile nel sommo maestro. E’ singolare
come Bacone, tanto accanito contro le autorità fragili e indegne, sia manifestamente caduto in errore su questa interpretazione
e anche sull’immanenza nell’anima umana dell’intelletto agente e dell’intelletto possibile; egli attribuisce
ad Averroè la formulazione di questa dottrina, mentre questi aveva insegnato, come tutti sanno, l’unicità dell’intelletto
agente, sostanza intelligibile separata per tutti gli uomini, e la mera ricettività dell’intelletto passivo dell’individuo:
l’intelletto agente stesso si particolarizza nell’anima umana, motivo per cui l’intelletto possibile non
appartiene propriamente all’individuo e si definisce unico per l’azione dell’intelletto agente.
In realtà Bacone era persuaso che la creazione ab aeterno non fosse una
tesi aristotelica, ma una dottrina che Averroè aveva erroneamente ascritto al Filosofo nei suoi commenti: ciò gli consentiva,
inoltre, di esprimere implicitamente la sua opposizione all’averroismo sia in sé, sia come corollario dottrinale dell’aristotelismo,
atteggiamento che diventa più palese negli scritti della maturità, come i Communis
naturalium.
Di fatto l’ampiezza, la profondità e la molteplicità delle conoscenza dello Stagirita attestano, per Bacone,
l’origine divina della sua sapienza, anche se la sua dottrina non deve per questo essere assimilata alla rivelazione
di Dio, così come tutta la filosofia estranea alla rivelazione.
Sed quia
non haberunt usum istius scripturae ideo non potuerunt omnino venire ad certitudinem veritatis. Et ideo qui vult scire philosophiam, scia team
in usu Scripturae, et secundum quod Scriptura requirit, et tunc veraciter potest eam scire[13].
L’origine divina scagiona
in parte la sapienza aristotelica dalle possibilità di errore, rivelandosi pertanto più incomplete che difettosa agli occhi
della posterità cristiana. L’atteggiamento baconiano è, ancora una volta, contraddittorio, egli concepisce, infatti,
la filosofia aristotelica come dono divino, ma nel contempo le nega gli attributi della piena rivelazione, forse per ragioni
di prudenza dottrinale che non poteva trascurare, dato il momento storico; così egli non doveva ignorare che i teologi rimproveravano
ad Aristotele di avere illustrato dottrine opposte all’insegnamento della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa,
anche se riteneva lecito scagionare il maestro da queste accuse poiché filosofia e rivelazione non erano per lui termini contraddittori.
Ma ciò che più interessa è il giudizio che Bacone attribuisce ad Aristotele in sede di filosofia morale; il merito
del Filosofo sta nell’aver insegnato che la morale non è come la dialettica e non è fondata sui sillogismo, bensì intimamente
legata alla persuasione legittima dell’eloquenza:
Unde Aristotiles
prime Ethice vult quod moralis sciencia non habeat uti demostracione, sed retorico argomento. Nam par peccatum est, ut dicit
ibi, moralem scienciam uti demonstracione et mathematicam argumentum rethoricum experiri; quondam demonstracio non flectit
intellectum practicum ad sua opera, set per se refertur ad intellectum speculativum, quia ultra scienciam veritatis non procedit.
Et ideo nec dialetica valet in moralibus et persuasionibus …[14].
Da una parte Aristotele suggeriva, attraverso la sua dialettica, una teologia fondata il più possibile sulla ragione
naturale dell’uomo e sulle sue regole di inferenza, dall’altra egli, sostenendo la forza retta e veritativa dell’intuizione
e della persuasione, concludeva che l’azione morale non ha nulla a che fare con le conclusioni dei procedimenti razionali:
partendo da quest’ultima constatazione, Bacone non poteva non trarne un’ulteriore condanna della teologia falsamente
speculativa: se morale e teologia sono per lui intrinsecamente legate, allora non si può nemmeno concepire una teologia aliena
alle prescrizioni dell’intelletto pratico, poiché non c’è conoscenza speculativa del bene e del vero senza azione
conforme ad essa.
II.3 L’eliminazione
delle cause di errore
Per comprendere nella sua linea evolutiva il pensiero di Bacone sull’eliminazione delle cause di errore occorre
prendere come terminali storici due opere fondamentali: l’Opus maius e il
Compendium studii theologiae. Esse appartengono rispettivamente a due fasi distinte
della sua attività: la prima si inscrive nel progetto enciclopedico che lo assorbì intensamente fino al 1267, insieme alla
stesura dell’Opus minus, dell’Opus
tertium e del Compendium studii philosophie, la seconda fu composta probabilmente
poco prima della morte, nel 1292, e riflette il suo forzato esilio dagli studi, patito dal 1280 al 1290.
Pur nella minore estensione del progetto di riforma, il Compendium studii theologiae
testimonia, per molti aspetti, l’esito concreto di quanto aveva illustrato nell’Opus maius, risolvendosi il rinnovamento della teologia in riforma linguisticamente attenta dell’esegesi.
Si possono, altresì, stabilire delle corrispondenze tra la prima parte dell’Opus
maius e la prima del Compendium studii theologiae, entrambe sulle cause di
errore, nonché tra una sezione scoperta recentemente della parte terza dell’Opus
maius, nota come De signis, e la seconda parte dello stesso Compendium, dedicata ai problemi del linguaggio[15]; quindi si può sostenere con certezza che il Compendium studii theologiae è interamente
dipendente dal materiale trovato nelle parti prima e terza dell’Opus maius.
Ma prima di affrontare gli esiti tratti da Bacone circa le cause di errore, così come essi appaiono nei diversi riferimenti
testuali, occorre specificare che cosa egli intenda per causa di errore e quali contenuti attribuisca a ciascuna di esse.
L’ispirazione di Bacone muove dal nido delle arti liberali, di cui egli vuole riformare l’ordine, approfondire
i contenuti e organizzarle secondo più precisi rapporti di subordinazione ad altri fini extrateoretici. Roberto Grossatesta
aveva composto un De artibus liberalibus, dove lo studio delle arti liberali era
considerato strumento di liberazione dall’errore; anche qui il debito di Bacone nei confronti di Grossatesta è evidente,
anche se non condizionò lo svolgimento autonomo delle sue ricerche: Roberto di Lincoln traeva gran parte del suo tesoro dottrinale
dal neoplatonismo, laddove Bacone attribuiva maggiore rilevanza al concetto cristiano di peccato originale; questo male ontologico
mina sostanzialmente ogni sforzo della ragione diretto ad estirpare le radici dell’errore, sempre serpeggiante nel contesto
dei rapporti intersoggettivi, per cui non si può mai parlare di liberazione definitiva da esso, neanche nella più felice delle
utopie.
La prima parte dell’Opus maius è esplicitamente dedicata alle causae erroris nella scienza, la cui individuazione costituisce un elemento imprescindibile per porre le fondamenta
di una riforma del sapere; esse sono individuate in numero di quattro e precisamente: la sottomissione a false e indegne autorità,
l’influenza perniciosa del costume, i pregiudizi popolari e la millantata verità o presunzione di sapere[16].
Bacone si scaglia contro le autorità false ed equivoche della moltitudine irrazionale e argomenta la sua presa di posizione
con citazioni tratte da Seneca, Aristotele, Cicerone, Avicenna e Averroè; egli, infatti, pone sullo stesso piano la perfezione
della fede e la perfezione del sapere filosofico: non c’è se non raramente un uomo perfetto in sapere e costumi in mezzo
a una moltitudine, perché la perfezione stessa comporta costanza e ripetizione, esercizi in uggia ai più giovani, motivo per
cui il numero dei sapienti è stato ed è estremamente esiguo.
Filosofia e fede vengono quindi assimilate ab origine come professioni analoghe
di vita perfetta, fatta eccezione per il fatto che la filosofia ha naturalmente dei limiti, che solo la storia può progressivamente
superare. Bacone ritiene che la quarta causa di errore, ossia la iactantia, sia
più pericolosa perché sorgente delle altre tre, ossia dei pregiudizi popolari, del costume e delle false autorità, presi in
ordine decrescente di forza perniciosa.
Il merito del nostro autore sta nell’aver sottolineato quanto il semplice possesso della fede, dell’autorità
e del sapere non dispensino dall’errore; le stesse autorità del passato dimostrano, all’opposto, quanto esse possano
essere fonte di contraddizione rispetto a sé medesime, così come l’imperfezione e l’errore, che regnano nel mondo
cristiano, attestano quanto la fede e la rivelazione non bastino a frenare i cattivi costumi della moltitudine.
Bacone non pensa, infatti, di poter includere la moltitudine, o volto cosiddetto, in un progetto cui essa è essenzialmente
impreparata e a cui finirebbe col nuocere per sua natura; egli esprime più volte la ferma opinione secondo cui il vulgus non deve necessariamente essere reso partecipe dei beni della sapienza, perché ciò finirebbe col corrompere
i benefici stessi della conoscenza e della ricerca. E’ questo un progetto sostanzialmente elitario, vagamente platonico,
come molte utopie, secondo il quale gli strumenti della salvezza devono essere in mano a una classe di privilegiati e “perfetti”,
in sapienza e costumi, che amministrano i doni ricevuti da Dio e conquistati con la costanza a una ignara e passiva moltitudine.
Il miglioramento delle condizioni di vita e la perfettibilità delle conoscenze saranno sempre condizionati da una gerarchia
sociale, dove sapere e potere sono privilegio esclusivo degli status più elevati
di essa, riflesso della divisione dei ruoli sancita dalla Chiesa anche nelle organizzazioni monastiche più eversive, come
quella francescana.
Bacone stesso rimane vittima di questa miopia nei confronti di una società che si stentava a focalizzare come entità
autonoma dalla Chiesa e lo stesso francescanesimo, pur avendo aderito più intimamente al mondo dei simplices, lo aveva fatto religiosamente, con lo spirito di devozione dovuto a Dio e alla sua Chiesa e non in
conflitto con essa. L’ermetismo di Bacone finisce, quindi, con l’infrangere nelle trame della storia gli esiti
del suo disegno di riforma; come ben sottolinea Alessio egli vuole ristabilire dei forti legami con un’alterità ricusata
come negativa, ma queste manovre spettano inderogabilmente ai dotti e ai sapienti, che devono operare in seno a una Chiesa
riformata. Da tutto ciò si scorge l’aleatorietà di un’utopia che prevede il sapere nella respublica fidelium, ma non per la respublica fidelium, riprendendola
in un ambito cristiano, e anche più schiettamente universalistico, l’ideale teocratico preconizzato da Avicenna per
l’Islam[17].
Bacone, sostenendo al contempo l’eliminazione delle cause di errore e la necessità di non volgarizzare certi
arcani della scienza, compromette la coerenza di un sistema fondato, per sua esplicita ammissione, sulla comunicazione del
sapere; perciò egli finisce con l’inficiare il valore pedagogico della sua riforma e le stesse possibilità di riscatto
che il sapere procura a simplices et illetterati.
Egli non si scosta, per tale motivo, da una concezione politica fondamentalmente teocratica, secondo la quale il potere
spetta, nella sua composizione spirituale e temporale, alla Chiesa e al suo pontefice illuminato, mentre ribadisce altresì,
attraverso la duplice valenza concettuale della respublica fidelium, una più incisiva
presenza del divino nel secolare, più di quanto avesse fatto Agostino con la separazione delle due civitates.
Non si deve peraltro dimenticare una “debolezza” del pensiero teologico di Bacone, per la quale egli è
spinto a negare alcune conseguenze del peccato originale, ossia la crescita della ragione, la debolezza della memoria e la
perversione della volontà, sostenendo la perfettibilità delle scoperte umane; era, infatti, ben arduo conciliare l’insegnamento
della rivelazione, in merito a tali questioni, con la speranza nell’assoluto potere salvifico del sapere, un sapere
che, a suo parere, avrebbe addirittura ricondotto l’umanità nella premeva condizione dei progenitori, anteriore al peccato
originale. D’altra parte questa fiducia nelle possibilità di un ritorno alla condizione primitiva si scontrava con la
sua stessa constatazione circa l’impossibilità di vittoria definitiva sul male e sull’errore, sottolineata in
precedenza.
L’ignoranza consiste nell’errore e nell’imperfezione e perciò l’errore e l’imperfezione
sono innati nella moltitudine, il cui errore è più frequente del suo desiderio di apprendere, seppure imperfettamente, la
verità; per questo motivo il volgo ha bisogno di essere guidato secondo una disposizione che gli è altrettanto innata, quella
di seguire i consigli e i sentimenti dei superiori[18].
La contestazione del principio di autorità è forse tra le più rilevanti nella condanna delle cause di errore, perché
mina le fondamenta stesse del giudizio sulle scienze nel Medioevo; Bacone erige, infatti, a paradigma di scientificità non
un’auctoritas codificata ed esterna, quali quelle teologica e aristotelica,
bensì l’esperienza fattuale da cui le scienze traggono il loro alimento e la loro vita. La magia, pur in tutta la sua
esecrabilità, rimane in qualche modo imparentata alla scienza nell’affermazione di certi bisogni concreti, anche se
non vi corrisponde per le risposte infantili; sarà l’experientia del dotto
a pronunciare la conferma di scientificità di un certo oggetto od esito di ricerca, quindi sarà lo sviluppo storico a decretare
il sostanziale successo o fallimento di un’attività no definibile aprioristicamente e dogmaticamente.
In questo modo il conflitto secolare tra auctoritas e ratio scientifica, veniva ridimensionato, mentre assumeva nuova funzione di auctoritas
l’esperienza reale dello sviluppo scientifico. Ed è proprio il concetto di progresso delle scienze a dare i colpi
più potenti all’autorità tetragona della teologia, prima, e dello pseudoaristotelismo, poi.
Bacone sussume la sua nozione di progresso scientifico, singolare per un filosofo cristiano, dagli antichi sapienti
pagani; egli nell’Opus maius, riprendendo una citazione da Pisciano, sostiene
che non c’è perfezione nelle umane scoperte, giacché gli studiosi delle età più vicine vengono a possedere, nell’avanzare
del tempo, i risultati delle fatiche dei loro predecessori. I pensatori delle generazioni più tarde hanno sempre aggiunto
qualcosa al lavoro dei predecessori, correggendo molto e cambiando di più, come è specialmente dimostrato nel caso di Aristotele,
che discusse criticamente tutte le proposizioni filosofiche degli autori del passato; a loro volta, Avicenna ed Averroè hanno
corretto molte delle tesi di Aristotele, che erano troppo vaghe e confuse.
Così trova conferma l’affermazione profetica di Seneca, che Bacone fa propria, secondo la quale verrà un tempo
in cui lo studio svolto lungo il passare delle età, porterà finalmente alla luce i segreti della natura: una sola vita non
è sufficiente all’investigazione di materia così ardua, perciò gli uomini del futuro conosceranno molte cose, a noi
oggi ignote, e verrà un tempo in cui la remota ignoranza dell’uomo sarà oggetto di stupore da parte di una posterità,
ormai appagata delle più ardite realizzazioni della sua scienza[19].
Nella prima parte del Compendium studii theologiae Bacone riprende la definizione
e l’elenco delle cause di errore, che in questa sede sono tre: fragili set indignae
auctoritatis exempla, consuetudinis diuturnitas, sensun multitudinis imperitae, con l’esclusione della iactantia, presente nell’Opus maius, già facente parte per se
stessa e trattata, quindi, isolatamente[20].
Non che Bacone fosse dimentico di quanto aveva affermato in precedenza, ma egli aveva ormai abbandonato dopo la morte
di Clemente IV l’idea dello scriptum principale, in cui tutte le discipline
dovevano essere trattate monograficamente; la Cronica XXIV generalium Ordinis Minorum
indica abbastanza genericamente l’imprigionamento di Ruggero a motivo della sua opera continens aliquas novitates suspectas; questo provvedimento, in realtà, non riguardava solo Bacone, ma anche altri
membri dell’ordine, inquadrandosi nello spirito delle Constitutiones Narbonenses
e, successivamente, nell’ancor più rigido generalato di Gerolamo di Ascoli e delle condanne parigine del 1277; infatti
solo con la morte di Gerolamo di Ascoli fu intrapresa una politica più liberale, per cui Ruggero ed altri poterono avvantaggiarsi
di una riconquistata libertà, dopo circa dieci anni, se non di prigione, almeno di esilio e di isolamento.
In realtà la tarda Cronica XXIV generalium contiene delle imprecisioni circa
lo stato accademico di Bacone, lì erroneamente presentato quale magister sacrae theologiae,
perciò si può dubitare altrettanto fondatamente del valore letterale dell’espressione carceri condemnatus, così come si era giustamente dubitato dell’imprigionamento di Bacone dopo le disposizioni
narbonesi del 1260. L’unico fatto che si può sostenere con una relativa certezza è che i provvedimenti del 1280, o giù
di lì, colpivano la libertà intellettuale dei membri dell’ordine più drammaticamente di quanto avessero sancito le disposizioni
di Barbona: queste avevano principalmente minato la circolazione delle opere e la comunicazione delle idee, quelli minavano
la libertà e i diritti personali dei confratelli. Era pertanto evidente che il Compendium
studii theologiae dovesse riflettere lo scacco subito dall’autore, dopo che la storia stessa e la politica della
Chiesa sembravano ormai aver dato torto alle sue passate speranze.
Non solo per ragioni di utilizzazione di materiale già presentato in altre opere, ma anche per ribadire più miratamene
il proprio punto di vista, Bacone sceglie di concentrare e concretare la propria attenzione sui problemi della lingua e del
significato, non senza aver prima introdotto un preambolo sulle cause di errore. A ciò si aggiunge nella prima parte dell’opera,
propriamente destruens, l’invito a professare un maggiore scetticismo su
materie correnti, scetticismo necessario come criterio e metodo primario di studio, secondo quanto aveva già affermato nell’Opus maius contro il principio di autorità. Tuttavia non si nota alcun cambiamento
nell’atteggiamento polemico e acrimonioso che egli manifesta, come di consueto, verso gli affari correnti, anzi il suo
tono è ancora veemente quando si occupa di argomenti trattati precedentemente con equanimità.
Maloney, nell’introduzione all’edizione da lui curata del Compendium
studii theologiae, ritiene che il proposito iniziale di Bacone fosse la dimostrazione dell’utilità di tutte le scienze
a un sapere teologico, che non fosse più qualificato come gnosi astratta e metafisicizzante, rispetto alla quale tutte le
altre scienze dovevano essere subalterne. Il maestro francescano propone, come vedremo, un modello pratico di teologia che
trova i suoi riferimenti essenziali nella storia del cristianesimo e nella morale.
Ma dopo la morte di Clemente IV e la “prigionia” decennale, egli era convinto dell’impossibilità
di far afferrare la sua scienza universale ai teologi.
La scienza del linguaggio, collegata alla teologia mediante l’esegesi, costituiva peraltro l’ultima risorsa
a disposizione dei dottori affinché fossero finalmente persuasi della necessità e della bontà del progetto baconiano; tuttavia
questa proposta era molto più modesta di quanto egli avesse indicato nell’Opus
maius, cioè non più compendio sintetico di tutte le scienze, afferenti a un disegno di unità etica e pratica, ma trattazione
analitica di un solo argomento (De significatione), affinché fosse ulteriormente
dimostrata l’utilità della scienza del linguaggio alla Scrittura e alla teologia. Cioè Bacone intende dimostrare cosa
egli avrebbe fatto se avesse concluso lo scriptum principale, potendosi sostenere
che il Compendium stava al progetto iniziato come la parte stava al tutto.
L’insistenza sulle cause di errore, da una parte, e sulle applicazioni alla Scrittura e alla teologia, dall’altra,
faceva sì che la scelta dell’argomento cadesse proprio sui problemi della lingua, quale punto di partenza immediato
della riforma degli studi teologici; non è, tuttavia, dato sapere se oltre a questo obiettivo immediato Bacone continuasse
a coltivare l’utopia della renovatio Ecclesiae, che solo con l’effimero
favore degli anni annunciati dalle profezie gioachimite, era riuscita a trovare consenso in un pontefice, scomparso troppo
presto per lasciare un’impronta nella storia.
II.4 Sapienza,
“potestas” e organizzazione del sapere
L’eliminazione delle cause di errore è la prima, ineludibile mossa verso una meta extrateoretica del sapere,
nell’adesione ad un ideale di praxis che Bacone vede compiutamente realizzato
nella moralis philosophie.
Si è visto, peraltro, come i termini principali delle causae erroris non
costituiscano affatto dei principi radicali opposti manicheisticamente alla via dell’essere e del bene, piuttosto essi
sono la forma pervertita e degenerata di quei principi del sapere che conducono alla piena potestas, ossia auctoritas, experientia
e ratio.
Le autorità fragili e indigene, la falsa esperienza delle correnti di opinione, la vana ragione della consuetudine
supina sono immagini agostiniane del male, concepito come assenza di essere, male che non è, solo per questo, meno minaccioso
e presente. La ragione non è sufficiente a rimuovere i vizi, gli errori, le cause della negatività solo riconoscendole come
tali, occorre infatti che a tale opera della ragione segua una ben più decisiva opera della volontà. Come la finalità del
binomio sapere-potestas è extrateoretica, così lo sono le fondamenta e, di conseguenza,
gli ostacoli che impediscono di porle; le cause degli errori sono di origine intellettuale, ma la loro radice ultima è morale;
non basta combattere semplicemente l’errore come devianza dottrinale o come eresia intellettuale, a guisa dei predicatori
domenicani, occorre altresì una più profonda conversione dell’essere umano, nella sua integrità di anima e corpo, ai
fini suggeriti dalla rivelazione.
I fini del sapere delineati nell’Opus maius sono l’ordinatio Ecclesiae Dei, la dispositivo Reipublicae fidelium, la conversio infidelium e la repressio reproborum[21]; per tale motivo il sapere deve superare l’ideale della semplice gnosi intellettualistica per aderire all’esperienza
interiore della rivelazione e dell’illuminazione che Dio concesse ai primi uomini come dono speciale, (patriarchi, profeti,
antichi sapienti pagani), e che egli continua a concedere ad ogni uomo che voglia
naturalmente progredire sulla via del sapere, per recuperare quanto posseduto dai filosofi non cristiani, tanquam ab iniustis possessoribus[22].
L’ideale del maestro francescano è rivolto alle Sacre Scritture come fonte unica ed assoluta di sapienza, senza
contrasto tra auctoritas e ratio; ciò
potrebbe suggerire un ritorno puro e semplice al messaggio dei Padri della Chiesa e in specie alla venerabile teoria alessandrina,
secondo cui solo nella Scrittura si dispiegava tutta la sapienza necessaria all’uomo; in realtà Bacone ritiene che l’atteggiamento
di rifiuto del cristianesimo delle origini nei confronti della sapienza pagana non sia più proponibile di fronte alle pressioni
del tempo presente: gli infedeli devono essere combattuti con le loro stesse armi, motivo per cui è necessario riappropriarsi
di dottrine già assimilate altrove per collocarle nel contesto in cui meritano di essere, quello della rivelazione cristiana.
Il rifiuto premevo di certe discipline, soprattutto da parte dei Padri latini, poteva essere giustificabile in un momento
storico in cui la filosofia veniva in particolare identificata con i costumi, la magia e l’idolatria dei pagani, ma
non poteva essere ammesso attualmente, poiché queste conoscenze non avrebbero più macchiato, secondo Bacone, la purezza del
messaggio cristiano[23].
Pur sottolineando tali distinzioni non si deve sottovalutare l’importanza del reditus e della reformatio preconizzati da Bacone; egli, infatti polemizza
con la gnosi intellettualistica della teologia scolastica, ma non certo con la gnosi-sapienza di ragione, affetto e volontà
del cristianesimo delle origini, professata dallo stesso Agostino; ponendo l’accento sulla volontà e sull’aspetto
operativo, egli intende portare alle estreme conclusioni un discorso appena abbozzato dai Padri della Chiesa e approfondito
nella teologia della storia di Agostino: la sapienza ha sì per oggetto e fine della sua attività Dio, ma il cristiano non
può fare a meno di servire Dio, hic et nunc, nella storia con azioni responsabili.
Il modello gnostico-sapienziale della tradizione biblico-patristica e alto-medievale presenta in primo luogo il problema universale
della beatitudine dell’uomo, della sua perfezione totale, della perfezione e della salvezza di coloro che si apprestano
a tale compito, non semplicemente speculativo e teorico, ma sostanzialmente esistenziale e esoterico. Chi intenda lo gnostico
come il filosofo metafisico per eccellenza, commetterebbe un errore di valutazione, non si deve, infatti, confondere la gnosi
con la gnosi eterodossa coeva, se non antecedente al cristianesimo, ove la componente filosofico-intellettualistica era prevalente;
lo gnostico vero e proprio tende naturalmente a divenire profeta, guida, apostolo, non solo di dottrina, ma anche di morale
e di vita, si propone, insomma, come il saggio per eccellenza.
Non si può negare che tali caratteristiche siano state riprese da Bacone, pur con un accentuato rilievo dato alla praxis, per cui conoscere Dio è anche servirlo, una volta posto il valore salvifico
della verità[24]. Quindi Bacone propone non solo un nuovo ideale di sapere, ma anche di sapiente; la verità è infinita e tale assenza di limiti
vanifica ogni possibile distinzione fra dotti e indotti. La distinzione che, invece, egli introduce è tra simplices e vulgus e l’appello, che egli rivolge nell’Opus maius al simplices, non è in contrasto
con l’ermetismo di cui si è parlato precedentemente: plura secreta sapientia
sempre inventa sunt apud simplices et neglectos quam apud famosos in vulgo[25].
L’ermetismo risponde più a ragioni di convenienza e opportunità politica, se non ancora a una visione feudale
del rapporto fra il sapiens potens e il resto della societas christiana, giudizio temperato tuttavia dall’accento posto sulla persuasione razionale e sentimentale
esercitata dall’uomo di scienza, piuttosto che sulla cogenza del diritto e della forza; il concesso di societas christiana è inoltre potenzialmente estensibile a tutti i popoli della terra: l’illuminazione divina
è, nella sua prima via, comune a tutti gli uomini nonché indipendente dalla loro fede, per cui l’opera di apostolato
e la nuova apologetica baconiana vengono efficacemente giustificate su questa base.
Il simplex non è solo l’illetterato, ma anche il dotto che ha un atteggiamento
di umiltà e non di magnanimitas nei confronti della verità; al contrario nel vulgus non si trovano solo gli illetterati, ma anche i sapientes vulgati, che, rifacendosi all’aristotelismo, propongono l’affermazione aristocratica della
somma dignità del lavoro intellettuale, rivendicazione che fecero propria, pur in toni differenti, sia Tommaso d’Aquino
che Sigieri di Brabante.
Una tale ispirazione non poteva non giungere a Bacone dal francescanesimo delle origini: all’interno dell’atteggiamento
di umiltà, si riproponeva la sacra alleanza di dotti e indotti, il dotto doveva elevarsi al livello della simplicitas per scendere alle richieste del mondo.
Si è a lungo parlato dello scriptum principale come della vera opera che
avrebbe dispiegato il progetto di Bacone nella sua integrità; in realtà esiste un rapporto ben più importante tra la sua attività,
precedente al 1260 circa, e le opere successive, destinate a illustrare segretamente al pontefice, per via delle disposizioni
di Barbona, la sua reformatio Ecclesiae; infatti lo scriptum principale, se fosse stato composto, avrebbe aggiunto ben poco a quanto già sinteticamente delineato
nel tractatus preambulus dell’Opus
maius e in quelli successivi; di fatto la differenza tra l’Opus maius,
in particolare, e l’enciclopedia progettata per i tempi successivi è analoga al rapporto tra trattazione sintetica e
trattazione analitica: la prima è simile a una Summa, la seconda a un complesso
di disciplinae trattate monograficamente, senza l’esplicitazione dei legami
reciproci. Questi legami nella gerarchia stessa del sapere vengono da Bacone illustrati nel disegno unitario dell’Opus maius, per cui egli non si poteva qui limitare a conferire unità nella ampiezza
stessa del materiale, come nelle raccolte coeve di Vincenzo di Beauvais e di Alessandro Neckam, ma doveva far cogliere nella
sua unità di fini morali, di strutture teoretiche generali e di metodi di dimostrazione il complesso delle scienze. Così egli
si esprime nell’Opus tertium:
Sed duplex
est modus totam sapientiam congregandi, aut in summa et sub compendio, aut in particolari singulas partes discutere et in
propria disciplina … et ideo in vanum aspirat homo ad habendam diffusam, et plenam, ac specialem doctrinam, nisi prius
gustet in universali et in summa …[26].
Memore di quanto Aristotele sosteneva a proposito della subalternazione della conoscenza particolare a quella universale,
egli finiva col ritenere molto più importante dell’enciclopedia la comprensione del disegno generale da parte del pontefice,
tanto da far seguire, a breve distanza dal primo Opus, altri due compendi ancora
più sintetici, l’Opus minus e l’Opus
tertium. Modificando la concezione del sapere e il volto dell’uomo di scienza, egli finiva con l’enunciare
un complesso di norme che orientassero il comportamento e la morale dell’uomo riformatore del sapere: l’unità
delle scienze si risolve potenzialmente nella loro utilitas, governata dalle supreme
leggi dell’etica date da Dio.
La grammatica è la prima delle scientiae, senza di essa e senza l’apporto
della filosofia, ossia della linguarum cognitio in generale, la filosofia e la
teologia sono sterili; Bacone si rifà così alla tradizione vittorina, ampliando ancora di più l’estensione ideale della
conoscenza della grammatica fino ad abbracciare quella di tutte le lingue della storia umana; i segreti del sapere sono custoditi
in lingue straniere dal momento che la provvidenza divina ha rivelato i suoi arcani ai grandi auctores, pagani e infedeli, illuminando il loro intelletto o, anche, semplicemente assistendo i loro studi. Così
la grammatica si rivela come strumento di connessione operativa tra la tradizione sapienziale, custodita in altre lingue,
e la nuova cristianità, che deve affermarsi dalle ceneri di un sapere apparente.
Il filologo deve procedere, però, oltre i limiti della propria competenza per adempiere progressivamente i compiti
della filosofia; delle tre arti del trivium, tradizionalmente propedeutiche nei
quadri del sapere, Bacone fa sopravvivere la grammatica come scienza introduttiva e fondante, mentre la retorica viene assimilata,
quale arte della persuasione, dalla filosofia morale, ossia passa da principio a fine extrateoretico del sapere; la logica,
a sua volta, diventa un mezzo del sapere, dovendo interamente alla matematica la sua fondazione. Da tutto ciò consegue che
la funzione del quadrivium è dominante rispetto a quella del trivium, dischiudendo una visione matematizzante della conoscenza e della realtà, che non è peraltro in contrasto
con l’apporto imprescindibile dell’esperienza.
La matematica è la cifra stessa della ratio, pilastro della scienza accanto
all’experientia, nonché porta et clavis
omnium scientiarum; tutto il quadrivio viene subordinato alla maestà della matematica senza motivo di scandalo, giacché
la tradizione precedente considerava già sinonimi matematica e quadrivium; la matematica è il presupposto e la linfa delle quattro
discipline successive, aritmetica, geometria, astronomia e musica, e dà forma e materia a tutte le altre scienze: essa è ratio sciendi in quanto ratio essendi di
tutte le cose.
E’ proprio la considerazione ontologica della matematica a giustificare ogni assenza di conflitto con l’esperienza:
la matematica sta a monte con le sue leggi deduttive, mentre l’esperienza permette di conoscere il reale concreto, integrando
circolarmente la conoscenza matematica. Contro il fisicismo di ispirazione aristotelica, Bacone si rifà al modello euclideo,
di recente riscoperta, propugnando una concezione opposta a quella di Tommaso, dove la matematica è opera di astrazione dell’intelletto
dalla realtà concreta, volta a coglierne gli aspetti quantitativi distinti dalla sostanza.
Dopo aver trattato nelle parti prima, seconda, terza e quarta dell’Opus
maius rispettivamente le cause di errore, la filosofia, la grammatica e la matematica, egli affronta nella quinta la perspectiva, ossia l’ottica; essa costituisce il piano mediano di connessione
tra la geometria e la fisica, dove le forme geometriche pure e disincarnate prendono la veste della fisicità effettiva, attraverso
il veicolo della luce, una luce intesa alla maniera grossatestiana quale anello di congiunzione tra lo spirituale e il corporeo,
quale evento fisico da cui si è dispiegata tutta la creazione[27].
Così egli nella sesta parte affronta la scientia experimentalis, mostrando
il vincolo indissolubile tra questa, radice di sapienza, e la matematica.
Per comprendere il loro rapporto citiamo la definizione di Alessio:
La Matematica include l’Esperienza,
l’Esperienza è inclusa nella Matematica in guisa che tutto ciò che appartiene al mondo reale … in cui è immersa
l’Esperienza, appartiene anche alla Matematica. Pertanto, se è vero che tutte le scientiae
implicano la Matematica, per ciò stesso tutte le scientiae implicano l’Esperienza
…[28]
Tuttavia Bacone intende, alla maniera agostiniana due generi di esperienza: quella esteriore,
appena illustrata, di cui è protagonista l’uomo con i suoi sensi e quella interiore, che procede, invece, attraverso
i gradi ascendenti dell’illuminazione che Dio concede all’uomo.
Di fatto il rapporto fra matematica ed esperienza diventa apiretico non appena Bacone prospetta sia l’esperienza
naturale e filosofica, sia quella soprannaturale e divina, apparentemente eterogenee l’una all’altra; in realtà
solo l’esperienza naturale viene inclusa nella matematica, mentre quella interiore, in quanto procede da Dio, è piuttosto
il fondamento delle scienze in quanto momento aurorale del sapere in generale: l’esperienza interiore include, quindi
la matematica, come tutte le altre scienze, mentre l’esperienza esteriore, quale fine, viene a confermarle.
II.5 Teologia
e filosofia morale
Se per Aristotele la gerarchia del sapere trova al suo culmine la metafisica, che fonda i principi di tutte le scienze
particolari ad essa subordinate, invece per Bacone le scienze trovano la loro ultima giustificazione nella morale, intesa
sia filosoficamente che teologicamente: “il primato metodologico spetta alla metafisica, mentre la teologia detiene
il primato assiologico”, dove si intende la teologia di Bacone come morale cristiana[29].
In realtà Bacone non propone un conflitto tra teologia e filosofia morale affinché una delle due scienze ottenga la
sovranità del sapere, piuttosto lo scontro è tra una teologia ormai fine a se stessa e una reformatio teologica imposta urgentemente dalla storia.
Duplice è per Bacone l’approccio alla verità, dal punto di vista filosofico e dal punto di vista teologico, tuttavia
la verità è una sola, quindi identico il contenuto della filosofia e della teologia: nella prima la verità si esplicita progressivamente,
mentre nella seconda è presente integralmente.
Nella seconda parte dell’Opus maius Bacone illustra i rapporti tra
filosofia e sapere in generale, dove la prima è sapere come ricerca ad infinitum.
Il potere della filosofia non è estraneo alla sapienza divina, perché la filosofia stessa vi è inclusa, mentre la metafisica
è semplicemente una parte della teologia. La teologia, contenuta nelle Sacre Scritture, si disvela grazie al diritto canonico,
di origine divina, e alla filosofia; a sua volta il diritto civile promana dalla filosofia morale, fondata totalmente sul
sapere filosofico: la ricerca filosofica dispiega la teologia, così come il diritto civile si dispiega grazie al diritto canonico,
senza esercitare la sua coazione indipendentemente da esso (Bacone qui polemizza con il culto irresponsabile del diritto civile,
quale si praticava nello studium di Bologna).
L’intera filosofia fu evidentemente data e rivelata da Dio, per cui questioni controverse, come quella degli
universali, devono essere necessariamente risolte solo in base alla rivelazione; la filosofia speculativa è la conoscenza
del Creatore attraverso le sue creature, mentre la filosofia morale stabilisce la dignità delle morali, ossia delle leggi,
il culto di Dio e persuade l’uomo della sua futura felicità, per quanto è in suo potere; è chiaro, pertanto, che la
filosofia è necessaria alla legge divina e al fedele che trova glorificazione in essa.
Ma l’intero scopo della filosofia consiste nel dispiegare le nature e le proprietà delle cose, perciò il suo
potere è contenuto integralmente nelle Sacre Scritture, dal momento che esse, con maggiore certezza e verità, comprendono
la realtà delle creature più di quanto possa fare la ricerca filosofica. Tuttavia è impossibile per un solo uomo conoscere
l’ultima verità circa una creatura, così come essa è presentata nella Scrittura, a meno che egli non sia stato particolarmente
illuminato da Dio.
L’intero corpus della filosofia fu concesso agli stessi uomini cui
fu anche dettata la legge di Dio, ossia i santi patriarchi e i profeti dell’età premeva dell’umanità; essi furono
i veri filosofi che conobbero tutte le cose per essere testimoni non solo della legge divina, ma anche dell’intera filosofia.
Dio concesse loro una vita di seicento anni per studiarla integralmente in modo da poter conoscere per esperienza ciò che
Egli aveva rivelato loro; dopo i patriarchi e i profeti vennero coloro che sono comunemente chiamati filosofi, i quali vissero
dopo Noè ed Abramo; tra essi Bacone ricorda Ermete Trismegisto, Apollo ed Esculapio e infine i filosofi della terza generazione,
tra i quali si trova, naturalmente, il sommo Aristotele.
Bacone qui confonde piano umano e piano divino, professando un accentuato evemerismo, secondo cui gli dei dell’antichità
non sarebbero stati altro che uomini venerati e divinizzati per particolari meriti di scienza. Zoroastro, Atlante, Prometeo,
Mercurio Trismegisto, Esculapio, Apollo e Minerva e altri finirono, tuttavia, col lasciare il passo a uomini che abusarono
del sapere, per cui questi meritarono una punizione divina, che ciclicamente arresta il progresso di una umanità colpevole
sulla via della conoscenza e che quindi onnubila il lume della filosofia per i suoi demeriti.
Niente è perfetto nelle scoperte umane, la filosofia di per sé è niente, tuttavia riceve vigore e dignità quando merita
di assumere la sapienza divina, così il sapere è intrinsecamente continuo, anche storicamente: tutti i filosofi vissero dopo
i patriarchi e i profeti e, perciò, essi lessero i libri di questi, inclusi nel testo sacro; ciò è confermato dalla corrispondenza
tra numerosi spunti dottrinali nei testi in questione; per questo Aristotele viene confermato, senza alcuna ombra di dubbio,
come una sorta di Messia precristiano. Questa stessa conclusione, inoltre, può essere provata secondo due principi della metafisica,
infatti questa tratta ciò che è comune a tutte le cose e a tutte le scienze, per tale motivo essa illustra il numero di queste
e il bisogno di un’altra scienza oltre la filosofia, i cui principi tratta in universale, benché non possa stabilire
questa scienza nel particolare; la filosofia procede, attraverso la metafisica, alla scoperta di un’altra scienza e
prova che essa esiste, nonostante che non possa rivelarla nella sua funzione specifica; e questa scienza è, nella sua interezza,
quella divina, che i filosofi chiamano theologia perfecta e per questa ragione
la filosofia stessa si eleva alla conoscenza delle realtà divine.
Secondo Bacone i filosofi erano ansiosi di confermare, sopra ogni altra questione, la veridicità di un messaggio che
annunciasse la salvezza dell’uomo; tuttavia l’assoluta bontà, giustizia e verità del messaggio cristiano non può
essere provata agli infedeli né attraverso la legge di Cristo, né attraverso gli scrittori sacri, perché seguendo le regole
della disputa dialettica essi verrebbero a negare tutti i contenuti della legge di Cristo, così come i cristiani ricusano
tutto ciò che appartiene alle leggi degli infedeli. Ora la persuasione circa la fede è necessaria, ma questa può essere portata
a buon fine solo in due modi, o con i miracoli, che sono oltre la comprensione dei fedeli e degli infedeli, o lungo la strada
comune ad entrambi, ossia solo con la filosofia.
Perciò essa deve fornire i metodi di prova della fede cristiana, ma gli articoli di questa fede sono i principi della
teologia, così la filosofia deve penetrare nelle prove dei principi della teologia, benché meno profondamente di quanto faccia
penetrando nelle prove dei principi delle altre scienze. In questo particolare la filosofia morale serve più efficacemente
la teologia e, sebbene dal punto di vista della verità alcune questioni siano pertinenti alla teologia, esse sono nondimeno
filosofiche proprio perché teologiche.
Se si intende la teologia come scienza della salvezza, allora la filosofia morale è immediatamente vicina ad essa,
giacché la serve nei suoi fini: la teologia conserva il primato, ma la si deve intendere esclusivamente come realizzazione
morale della scienza dei cristiani; perciò la filosofia morale è la più nobile di tutte le scienze, perché tra esse è quella
che è più prossima alla teologia, quasi che quest’ultima non possa essere considerata se non assolutamente; essa non
è nobilior, dice Bacone, ma mobilissima,
il superlativo assoluto è la chiave del rapporto apparentemente controverso tra teologia e filosofia morale nella gerarchia
delle scienze[30]. Pertanto oltre il principato della filosofia morale, c’è il regno della divina teologia; dal punto di vista dell’ordinamento della scienza la distinzione tra naturale
e soprannaturale non è ben formulata, contro la concezione di san Tommaso mediata dalla dottrina aristotelica: per Bacone
la teologia è la conclusione nei fini e la comprensione nei contenuti di tutte le altre scienze.
Proprio per questo egli sembra talvolta abbassare la teologia ai ranghi di una comprensione razionale, ma questa è
per lui l’unica via storicamente efficace per realizzare la conversione degli infedeli: la ragione realizza parzialmente
la verità della teologia, per cui utopia e storia, di fatto, non si incontrano mai, nonostante l’ottimismo del programma.
La filosofia speculativa ha la filosofia morale quale suo fine e scopo e dal momento che, come dice Aristotele, il
fine impone necessità a ciò che lo riguarda, la filosofia speculativa è in grado di disporre i principi della filosofia morale.
In questo modo sono congiunte le due parti della filosofia presso gli infedeli, ma presso gli studenti cristiani di
filosofia la scienza morale perfetta e separata dalle altre è la teologia, che aggiunge alla illustre filosofia del passato
la fede di Cristo e la verità della natura divina; e questa meta ha la sua speculazione che la precede, così come la filosofia
morale degli infedeli ha la sua; esiste anche una relazione tra i fini: il fine per eccellenza, ossia la legge di Cristo,
aggiunge alla legge dei filosofi gli articoli di fede, con i quali si completa la legge della filosofia morale in modo che
ce ne sia una sola.
Si affermerà una sola completa speculazione, il cui principio deve essere la filosofia speculativa dei sapienti pagani
e il suo complemento morale deve essere aggiunto alla teologia in accordo con le caratteristiche peculiari della legge cristiana.
I filosofi infedeli ignorano molte cose concernenti la materia divina e se queste fossero adeguatamente poste di fronte
a loro e provate dai principi del perfetto sapere, ossia con l’evidenza razionale, che ha la sua origine nella filosofia
dei non credenti, e con la fede in Cristo, essi le riceverebbero perché aspirano alla verità. Esiste un legame tra tutte le
scienze, perché ciascuna cosa dipende da un’altra; gli scrittori sacri parlano non solo come teologi, bensì come filosofi.
Il filosofo cristiano può unire molte ragioni e opinioni, tratte da diverse autorità, a quelle dei filosofi infedeli, purché
esse appartengano alla filosofia o siano comuni ad essa e alla teologia e purché debbano essere ricevute sia da credenti che
da non credenti; se ciò non verrà rispettato, non vi sarà progresso ma perdita: la filosofia degli infedeli è essenzialmente
pericolosa e non ha in sé alcun valore, essa conduce alla cecità dell’inferno poiché da sola è oscurità e nebbia.
L’opposizione all’assoluta sovranità della ragione sostenuta dall’averroismo è qui evidente, l’esercizio
della filosofia come ratio non è mai autonomo, né affatto distinto dalla teologia,
bensì dipendente dalle Sacre Scritture. Del pari Bacone contesta la separazione di auctoritas
e ratio in seno all’aristotelismo ortodosso, la filosofia non può perciò
distinguersi in alcun modo dalla teologia, giacché il loro contenuto è oggettivamente identico, né peraltro può porsi, date
queste premesse, il problema della loro concordia, analogamente a quanto accadeva nell’aristotelismo ortodosso.
Filosofia e teologia interpretano diversamente uno stesso dato: la philosophie
inerisce alla lettera del testo sacro, la theologia si addentra nella comprensione
dei molteplici sensi della Scrittura, il diritto canonico coglie i comandi che ne conseguono e li esplicita. Per questa organizzazione
dei compiti, il maestro francescano ritiene opportuno distinguere metodologicamente il lavoro del filosofo da quello del teologo,
cioè il sapiente è nel metodo prima l’uno, poi l’altro, procedendo dalla lettera
al sensus della rivelazione stessa, dalla grammatica o filologia alla teologia.
La filosofia è itinerario verso la Sapienza, che si esplicita in ricerca della salvezza e, analogamente, la filosofia
speculativa in filosofia morale, le scienze speculative in scienze pratiche. Tuttavia la moralis
philosophia è soltanto la realizzazione della sapienza umana, non di quella divina, poiché essa è costitutivamente imperfetta:
solo la theologia è assolutamente perfecta;
la sapienza umana elabora filosoficamente quella originariamente divina, che perciò si esplicita attraverso la filosofia e
nella filosofia.
In Bacone la relazione tra la teologia e le altre scienze è più simile a quella tra effetto e causa, come sottolinea
Bérubé, piuttosto che tra causa ed effetto[31]. Nell’Opus maius egli riesce a delineare chiaramente l’organizzazione
del sapere, per cui solo attraverso una lettura attenta di quest’opera si possono fugare i dubbi circa la concorrenzialità
tra filosofia morale e teologia: la morale è, filosoficamente, il vertice della sapienza umana, è scienza pratica e guida
l’uomo alla salvezza e vi aspira secondo le sue forze e i suoi limiti, la teologia è divinamente la scienza pratica
per eccellenza, poiché essa riguarda direttamente la salvezza dell’uomo.
La filosofia morale è momento dell’esplicitazione della perfecta theologia,
che ne è il fine essenziale, per cui la prima si definisce radicalmente come teologia imperfetta.
L’esordio e la conclusione dell’Opus maius sono moralmente ispirati:
all’inizio sono illustrati gli offendicela sapientiae, mentre poco prima
dell’epilogo, ossia nella Moralis philosophie, Bacone elenca gli ostacoli
che impedirono ai filosofi pagani la conoscenza della vita eterna, cioè il peccato, la cura eccessiva del corpo, la prigione
del mondo sensibile e l’assenza dell’ausilio essenziale della rivelazione.
La stessa circolarità del legame fondamento-fine, ispirazione-esito è costitutiva della definizione del sapere nel
maestro francescano e della sua stessa concezione della storia; in quest’ultimo senso Bacone è debitore di una specifica
impostazione neoplatonica, per cui egli individua nella storia tre scansioni fondamentali, l’unità premeva della rivelazione
concessa ab origine all’umanità, la molteplicità delle tradizioni filosofico-religiose
successive e, finalmente, il reditus all’unità della chiesa universale nella
Sapienza cristiana; in realtà il necessitarismo di ispirazione neoplatonica si oppone alla concezione dell’assoluta
libertà di Dio, che Bacone trae dal cristianesimo. La rivelazione della verità divina e naturale, a guisa della creazione
ex nihilo, non è affatto necessitata, bensì promana dalla libera volontà del Creatore.
II.6 L’utopia
della “respublica fidelium” e il gioachimismo
Nella prima sezione della settima parte dell’Opus maius, ossia della
Moralis philosophie, Ruggero Bacone illustra i principi della scienza attiva per
antonomasia, detta anche scienza civile, poiché da essa promana il diritto civile.
Come la teologia ascrive a sé tutto ciò che riguarda la verità di fede, anche se non tutte le sue fonti sono teologiche,
così la filosofia morale ascrive a sé tutto ciò che le perviene, anche se le sue radici sono differenti. Questa scienza insegna,
in primo luogo, a disporre le leggi e le obbligazioni della vita, in secondo luogo insegna che queste devono essere oggetto
di fede e di rispetto e, infine, che gli uomini devono essere spinti ad agire e vivere secondo queste leggi.
La prima parte di questa scienza, concernente le leggi, presenta tre diramazioni: i doveri dell’uomo nei confronti
di Dio e degli esseri angelici, i doveri verso il prossimo e quelli verso se stesso, come sancisce la Scrittura. Tuttavia
solo nella seconda sezione della Moralis philosophie egli tratta nello specifico
le leggi e gli statuti che regolano le relazioni umane, in modo che da questa lettura si possano trarre i riferimenti opportuni
all’ideale della respublica fidelium.
Non deve perciò stupire, per quanto già anticipato nel paragrafo precedente, che Bacone si sia appoggiato quasi esclusivamente
ad auctoritates pagane, e a Seneca in particolare, per la sua morale riformata,
infatti essa, in quanto riformata, doveva recuperare quella sapienza originaria precristiana, filosoficamente perfetta, con
la quale si doveva costituire la respublica fidelium. L’attenzione a prima
vista eccessiva e sproporzionata alle pagine di Seneca, era pertanto motivata dall’urgenza di mostrare al pontefice
un tesoro di sapienza, che solo considerazioni false e pregiudiziali potevano impedire di utilizzare.
Il pensiero di Bacone sulla respublica fidelium sembra essere molto vicino
a quello di Agostino sulla Civitas Dei, ma come sostiene Etienne Gilson essa:
ce n’est
pas la Cité de Dieu, ni même tout à fait l’Eglise. Bien qu’elle doive grandir dans la lumière de l’Eglise
et préparer à sa manière l’avènement de la Cité de Dieu, elle est un vrai peuple temporel sous la condite de la sapesse
chrétienne, en vue de la recherche des biens dont l’homme peut jouir dans le temps[32].
Ciò che differenzia il pensiero di Bacone da quello di contemporanei quali Bonaventura e Tommaso, non è la concezione
del potere spirituale e temporale in mano al pontefice, ossia la teoria delle due chiavi, ma la visione precisa del contesto
che si sottomette all’esercizio dei due poteri, o meglio, dell’unico potere della fede; il popolo cristiano è
ovunque presente e il suo capo è il pontefice, che lo governa attraverso la Sapienza, laddove san Bonaventura e lo stesso
Tommaso, pur così attento alla morale e alla politica del suo tempo, si comportano eminentemente da teologi, non procedendo
oltre l’illustrazione della gerarchia dei poteri.
La sapienza cristiana è il principio, ma anche lo strumento con cui i fini soprannaturali si incarnano nella comunità
cristiana, intesa nel suo perfetto significato di respublica fidelium, dove un
termine come respublica fa riferimento alla sfera temporale e il genitivo fidelium a quella spirituale; in nessun altro autore o testo né precedenti, né coevi è possibile ritrovare una
siffatta combinazione: la fede deve costituirsi in respublica organizzata, mentre
la sapienza cristiana deve riformarsi alla luce della sapienza originaria e filosofica
degli antichi.
In sostanza la respublica fidelium si realizza temporalmente attraverso
una sapienza, che prevede il recupero di una filosofia identificata tout court
con quella pagana, affinché si chiuda il circolo: la filosofia non può essere senza la teologia, così come la respublica non può essere senza un popolo di fedeli.
Questo è un atteggiamento che consente a Bacone di strumentalizzare conoscenze tradizionalmente demonizzate ai fini
assoluti della Chiesa riformata: la magia, come la rivelazione non “perfetta” della religione islamica, è potenzialmente
benefica, motivo per cui lo stesso concetto di respublica, pur evocando l’antichità
pagana, può essere recuperato alla luce di una illuminazione privilegiata, libera dagli offendicela
sapientiae.
E’ tale illuminazione che muove il nostro autore sulla via del profetiamo e del messianismo, peculiari di molti
movimenti spirituali del secolo XIII, primo fra tutti il gioachimismo, che vedeva nella storia passata dell’umanità
la divinazione di quella futura.
Per Gioacchino da Fiore vi è un mistero profondo di cui è simbolo i dogma trinitario; come tre sono le persone della
Trinità, così devono essere tre le epoche del mondo: l’età del Padre, dominata dal timore e dalla servitù, quella del
Figlio, dominata dall’azione e dalla fede, e infine quella di prossimo avvento dello Spirito Santo, che sarà dominata
dalla contemplazione e dalla carità. Queste profezie ispirarono profondamente le istanze dei francescani spirituali, cui Bacone fu in qualche modo vicino pur percorrendo una sorta di via
media sapienziale, sia rispetto ad essi sia rispetto alle gerarchie dell’ordine riformato.
Comune al gioachimismo e al profetiamo di Bacone è il terrore dell’Apocalisse, la visione escatologica che, nonostante
tutti gli ammonimenti, non si risolve in entrambi i casi in destino esiziale per l’umanità; Gioacchino da Fiore, morto
nel 1202, pensava che l’umanità fosse ormai prossima alla fine del secondo stato, il quale avrebbe portato con sé, prima
di concludersi, un periodo di persecuzione per la Chiesa, destinato ad inasprirsi fino a culminare nella venuta dell’Anticristo;
così egli attendeva, in base a certi calcoli, la fine del secondo stato e l’inizio del terzo per il 1260, proprio nel
periodo in cui Bacone avrebbe disposto il suo progetto enciclopedico.
I caratteri di questa terza età sono estremamente indeterminati, si prevede soltanto il ritorno di Cristo e il raccogliersi
di una Chiesa purificata attorno a un santo pontefice, il quale la ricondurrà sulla retta via. Bacone vedeva nella pressione
proterva dei Tartari una conferma ulteriore della prossima venuta dell’Anticristo, che anche le Sacre Scritture indicavano
proveniente proprio dalle lande asiatiche abitate da questo popolo, ma le analogie tra l’attesa messianica gioachimita
e tale escatologia non vanno oltre l’indicazione storica degli imminenti segnali di dissoluzione.
Di sicuro Gioacchino da Fiore attendeva un’età di palingenesi spirituale, di ritorno alla fede dei puri, di fratellanza
e di amore, nella quale la vita contemplativa avrebbe avuto il sopravvento su quella attiva, se addirittura non l’avrebbe
soppressa.
Lo stesso Dante ammirò e venerò a tal punto la figura di Gioacchino da collocarlo in Paradiso a fianco di san Bonaventura[33]; pur avendo alcuni critici sopravvalutato l’importanza di questa citazione, è indubbio che Dante condivise in gran
parte le attese del veggente calabrese ed ebbe lo stesso desiderio di una Chiesa e di una società rinnovate e purificate.
L’esempio di Dante non è che la prova più sincera del vasto consenso che il gioachimismo ebbe nel XIII secolo e anche
dopo, nonostante che il fatale 1260 fosse già passato.
Nel gioachimismo la salvezza si incarna storicamente in un personaggio concreto, cioè in un santo pontefice; Bacone
segue questa profezia e lo individua in Clemente IV, mentre Dante sceglie l’autorità imperiale di Arrigo VII e destino
vorrà che le speranze di entrambi fossero vanificate dalla morte prematura sia di quel pontefice che di quell’imperatore.
Tuttavia il rinnovamento predetto da Bacone andava ben oltre la mera attività contemplativa che avrebbe caratterizzato
l’età dello Spirito Santo: è il lume della sapienza ordinata ai suoi fini attivi che guida la Chiesa di Dio, che organizza
la respublica fidelium, che opera la conversione degli infedeli e, infine, con
il suo potere reprime coloro che si ostinano nel male e li respinge dalle frontiere della Chiesa, più lontano di quanto farebbe
versando invano il sangue cristiano.
Dopo l’Apocalisse imminente dell’età presente, Bacone predice un’età avente qualità ben differenti
da quella gioachimita, comune ad entrambi i casi è solo l’ansia di rinnovamento; dopo l’Apocalisse si dovrebbe
costituire per Gioacchino il regno dello spirito, invece il maestro francescano insiste sull’avvenire della stessa storia
umana; dall’altra parte le stesse profezie di Gioacchino erano destinate a realizzarsi in questa vita, affinché si concretasse
l’instaurazione del regno di Dio sulla terra attraverso la palingenesi e la catarsi della società cristiana[34].
Ma Bacone non ritiene opportuno né confondere al respublica fidelium con
l’Ecclesia né separarle, poiché attribuisce a ciascuna delle due fini distinti;
la Sapienza si pone al servizio della Chiesa per ordinare, promuovere e dirigere la medesima in tutti gli ordini del bene
spirituale, affinché i fedeli ottengano il premio della beatitudine futura, ma la stessa Sapienza, servendo la respublica fidelium, provvede alla disposizione dei beni temporali che le sono necessari.
La respublica fidelium è temporale, ma deve la sua fondazione, organizzazione
e prosperità a una sapienza cristiana dispensata da un potere spirituale; dal momento che sono solo i chierici a possedere
le chiavi di questa sapienza, allora saranno essi a governare la Chiesa, a dirigere la turba dei laici e a convertire gli
infedeli e gli eretici; il rinnovamento è quindi in mano agli stessi uomini che, tralignando ora, dovranno poi convertire
il proprio spirito ai giusti costumi per la salvezza loro e dell’umanità.
I cristiani attualmente non sono in grado di comprendere la scienza dei filosofi pagani, perché i loro costumi sono
corrotti; se sono corrotti i costumi di un tempo, è anche perduta la sapienza degli antichi; solo il pontefice, quale capo
supremo, potrà recuperare gli studi e la Sapienza nella loro purezza originaria per poi procedere alla guerra contro i Saraceni
e alla conversione dei Tartari, tuttavia non si vede come egli potrà realizzare tutto ciò. Bacone allude piuttosto vagamente
a una santa alleanza tra chiave del potere temporale e chiave del potere spirituale, cioè tra un principe, o imperatore cristiano,
e il papa, ma non si riesce a prevedere né chi farà tutto ciò, né come:
Deus quidam
propter suam bonitatem infinitam, et longanimitatem sapientiae, non statim punit genus humanum, sed differì vindictam, usquedum
compleatur iniquitas, quae non potest nec debet ulterius sustineri. In Genesi enim legimus, quod noluit tunc dare Patriarchis
terram promissam, quia nondum completa fuit iniquitas Amorraeorum … Sed diu cum multis modi set temporibus diversis Deus corripuit
et correxit ecclesiam suam. Sed nunc quia completa est militia hominum, oportet quod per optimum Papam, et per optimum principem,
tanquam gladio materiali conjuncto gladio spirituali purgetur ecclesia; aut quod per Antichristum, vel per aliquam tribulationem,
ut per discordiam principum Christianorum, seu per Tartaros et Saracenos, et caeteros reges Orientis, secundum quod diversae
Scripturae sonant, et viaria prophetiae. Non
enim est dubitation aliqua apud sapientes, quin purganda sit cito ecclesia[35].
Dopo la riforma dei costumi si dovrà affrontare quella dell’amministrazione ecclesiastica, in primo luogo la
riforma del diritto civile e la sua sottomissione al diritto canonico; Bacone lamenta, infatti, che i migliori studenti, versati
nella filosofia e nella teologia, trascurino queste discipline e passino al diritto civile, giacché tutte le ricchezze e tutti
gli onori sono dei giuristi.
Il peggio è che essi amano farsi passare per uomini di Chiesa e pretendono che il diritto civile abbia valenza universale,
laddove ciascuna nazione o popolo ha le sue leggi e quindi il suo diritto civile particolare.
Per Bacone continua a valere l’archetipo cristiano della divisione tra chierici e laici: come i cristiani, secondo
una lunga tradizione, non si considerano di questo mondo terreno, così i chierici non appartengono ad alcun paese e non sono
sottomessi ad alcuna legge civile particolare, bensì devono la loro obbedienza solo a quella divina.
Tuttavia l’argomentazione più razionale svolta da Bacone contro il diritto civile riguarda le sue pretese di
scientificità: esso non è una scienza, bensì l’applicazione particolare e contingente di principi che promanano dalla
filosofia, arte il cui esercizio conviene ai laici. Come insegna Aristotele, non
ci può essere diritto senza morale, giacché lo Stagirita, invece di dire quale fosse il diritto, ne ha insegnato il principio
e le cause; pertanto non ci può essere filosofia senza verità cristiana, come morale senza filosofia e diritto civile senza
filosofia morale.
Anche qui si pratica una riduzione delle arti alla teologia, ma non una reductio
teoretica, bensì pratica, ovvero finalizzata alla nobile politica dell’unificazione del mondo sotto l’egida della
fede.
L’unità del mondo dipende dalle possibilità di universalizzazione della fede, che sono in potestà della Chiesa;
Dio, nella sua infinita bontà e provvidenza, volendo salvare tutti gli uomini,
non può rifiutare al genere umano la conoscenza delle vie di salvezza, per cui il problema e la sua soluzione risiedono nell’estensione
del messaggio di fede tra coloro che cristiani non sono.
Dal momento che tale fede dipende dalla libera accettazione del credente, si può fare ben poco imponendo una verità
rivelata a coloro che negano la divinità di Cristo e l’autorità del suo Verbo; solo la filosofia, come si è già visto,
può operare tale conversione, tanto più che gran parte degli infedeli sono già in possesso pressoché esclusivo di essa. I
cristiani dovranno, pertanto, recuperare tali conoscenza filosofiche, di cui sono i legittimi custodi, proprio per vincere
sul loro stesso terreno e con le loro stesse armi coloro che cristiani non sono; si farà appello alle conoscenze naturali,
comuni a tutti gli uomini in virtù della loro natura: dalla conoscenza di Dio e della sua esistenza, universalmente nota,
si passerà alla dimostrazione della sua unicità e unità e a quella della sua proprietà di Essere primo non causato, per poi
procedere alla dimostrazione dell’argomento sull’immortalità dell’anima e su destino ultraterreno dell’uomo.
La filosofia lascia sempre e dovunque vestigia della sapienza cristiana e solo di essa, ovvero essa anticipa profeticamente
e razionalmente il Verbo di Cristo, ma non certo quello di altre religioni, quali la giudaica e l’islamica.
Nonostante ciò la respublica fidelium non rappresenta la vittoria definitiva
del potere di Cristo e della Chiesa sul male, poiché questo rimane perpetuamente in agguato nella storia; ci sarà sempre un
irriducibile manipolo di infedeli, tale da giustificare la distinzione agostiniana tra beati e reprobi anche su questa città
terrena, in virtù dell’arcana predestinazione divina. Secondo Gilson la respublica
fidelium di Bacone segna la prima vistosa metamorfosi, caratteristica e difficilmente contestabile, della Civitas Dei; già nel XII secolo il cistercense Ottone di Frisinga, autore di un De duabus civitatibus, identificava compiutamente la Città di Dio con il popolo della Chiesa: vi sono virtualmente
due città, ma come il grano è mescolato alla paglia, così vi è una sola città, ossia la Chiesa, ove gli eletti e i reprobi
dimorano parimenti[36]. Bacone distingue la respublica fidelium dalla Chiesa in ordine ai rispettivi
fini, ma allontana infinitamente le distanze di queste dalla Città di Dio. Il soprannaturale si definisce in seno alla storia
stessa, per cui non ha importanza per Bacone affrontare l’escatologia in senso proprio, cioè parlando degli ultimi destini
dell’uomo dopo la vita terrena e alla fine del mondo. La sua escatologia, come in parte quella de gioachimismo, rimane
impropriamente in seno alla vita terrena, ossia segna il trapasso da una fine a una rigenerazione che non comporta affatto
la perdita della dimensione terrena e temporale. La vittoria della Chiesa sull’Anticristo è insieme spirituale e temporale,
la costituzione della respublica fidelium segna la fina della minaccia e l’inizio
della prosperità, ma se tutto ciò si realizza nella storia, per quanto possa essere felice il destino dell’umanità convertita,
sarà pur sempre irrimediabile e irredimibile il male ai confini dell’estensione territoriale della nuova cristianità
e forse anche in seno ad essa; nonostante il progresso e la perfettibilità umana, il peccato e i peccati continueranno a sussistere
e a procurare danno e dolore, benché meno drammaticamente di quanto avvenisse prima. Tale è l’utopia che deve fare i
conti con la storia e con i limiti dell’umana felicità; Bacone insiste sull’unità essenziale dell’essere
umano: esso non è solo un corpo e nemmeno un’anima congiunta ad un corpo, perciò la sua stessa felicità sarà sia dalla
parte dell’anima che da quella del corpo. In realtà queste asserzioni, che tendono a ripristinare l’armonia di
teoria e prassi, di scienza ed utilità, di spirituale e temporale, devono fare i conti con i limiti delle possibilità umane:
queste migliorano, ma procedono asintoticamente nei confronti della perfezione ideale. La felicità proposta e portata innanzi
dalla filosofia, fino a dove le è possibile, non è che un assaggio della futura felicità che attende l’uomo alla fine
della sua esistenza. Bacone non aggiunge nient’altro per connotare la felicità ultraterrena dell’uomo, egli non
usa il linguaggio del misticismo, come Bonaventura, e preferisce puntare il suo strale là dove è necessario, ma anche dove
occorre curare le ferite di una cristianità errante perché insipiente; bisogna fare prima i conti con il proprio dovere di
uomini e di cristiani, per meritare il premio celeste, così come la vera filosofia merita la rivelazione divina.
NOTE
[1] Come molte altre opere di medicina e di filosofia naturale
il Secretum secretorum (Sirr al’Asrar) fu falsamente attribuito ad Aristotele;
in realtà si trattava di una raccolta di precetti, di consigli segreti e di cognizioni esoteriche che dovevano servire all’istruzione
dei sovrani, tradotta ad Antiochia da Filippi di Tripoli nel secolo XII. Per maggiori dettagli sul mito e sulla tradizione
dell’opera si veda M. GRIGNASCHI, La diffusion du «Secretum secretorum» (Sirr
a- Asrar) dans l’Europe occidentale, «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du moyen age», 47 (1980),
pp. 7-70.
[2] Opus tertium in Fra
tris Rogeri Bacon Opera quaedam hactenus inedita, ed. J. S. BREWER, London 1859, [ristampa, Kraus Reprint, 1965], p. 59.
[3] Si veda F. ALESSIO, Mito e scienza in Ruggero Bacone,
Meschina, Milano 1957, pp. 79-105.
[5] Per il tema dell’utilità delle scienze secondo l’ordine francescano si veda la
famosa Epistola de tribus questionibus in S.
Bonaventurae Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1882-1902, vol. VIII, p. 334. Si riteneva che la lettera fosse
stata indirizzata a Bacone, prima del suo ingresso nell’ordine, e fu meglio conosciuta con il titolo di Epistola innominato magistro. In realtà i consigli e le esortazioni che Bonaventura rivolge all’innominato
maestro hanno ben poco a che vedere con Bacone, infatti non poteva essere certamente questi a nutrire degli scrupoli circa
l’utilità degli studi per i francescani.
[6] F. ALESSIO, Mito …, cit., p. 95.
[7] “E certamente se avessi potuto comunicare liberamente, con un mio confratello e con altri
amici miei carissimi, avrei composto molte cose. Ma quando disperai di comunicare, abbandonai la composizione”: Opus tertium, p. 13.
[8] Per approfondire i rapporti tra san Bonaventura e Bacone si veda C. BÉRUBÉ, Le «dialogue» de saint Bonaventure et de Roger Bacon, «Collectanea Franciscana», 39 (1969).
[9] Vedi The «Opus
maius» of Roger Bacon, ed. J. H. BRIDGES, 3 voll., Oxford, 1879-1900 [ristampa, Minerva, Frankfurt am Main 1964].
[10] In realtà Aristotele chiama “politica” o “filosofia dell’uomo”
la scienza dell’attività morale complessiva degli uomini distinguendo questa in etica e in politica in senso stretto;
v. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 3 e X, 9, 1181b, 15 e G. REALE, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano 1987 vol. 2, pp. 489-490.
[11] Cfr. Epistola de secretis operibus arti set naturae
et nullitate magiae in Fra tris Rogeri Bacon Opera …, cit., pp. 523-551.
[12] “Sono certo che sarebbe meglio per i Latini che la sapienza di Aristotele non fosse stata
tradotta piuttosto che tramandata in tale oscurità e perversità … Se avessi potestà sui libri di Aristotele, io li farei
bruciare tutti, giacché occuparsi di essi non è se non una perdita di tempo, causa di errore e proliferazione maggiore di
ignoranza”: Compendium studii philosophiae in Fratris Rogeri Bacon Opera …, cit., cap. VIII, p. 469.
[13] “Ma poiché non ebbero l’uso di questa Scrittura, essi non sono pervenuti affatto
alla certezza della verità. E perciò chi vuole conoscere la filosofia, la conosca nella sua applicazione alla Scrittura e
secondo ciò che essa chiede, e solo allora sarà in grado di conoscerla veramente”: Opus
tertium, p. 83.
[14] “Perciò Aristotele nel primo libro dell’Etica vuole che la scienza morale non usi
la dimostrazione, ma l’argomento retorico. Infatti è un pari peccato, come dice ivi, che la scienza morale usi la dimostrazione
e quella matematica esperisca l’argomento retorico; giacché la dimostrazione non persuade l’intelletto pratico
alle opere convenienti, ma si riferisce per sé all’intelletto speculativo, poiché non procede oltre la conoscenza della
verità. E perciò la dialettica non è valida né nella morale, né nella persuasione”: Rogeri
Baconis Moralis philosophia, a cura di E. MASSA, Thesaurus Mundi, Zürich 1953, p. 250.
[15] Vedi Compendium
of the Study of Theology, Edition and Translation with Introduction and Notes by TH. MALONEY, Brill, Leiden 1988, pp.
6 e segg.
[16] V. The «Opus maius»
of Roger Bacon, trad. inglese di R. B. BURKE, 2 voll., University of Pennsylvania Press, Philadelphia – Humphrey
Milford, London – University Press, Oxford 1928, parte I, pp. 4-35.
[17] F. ALESSIO, Mito …, cit., pp. 221-229.
[18] Opus maius, trad. BURKE, parte I, p. 35.
[20] Compendium
of the Study of Theology, p. 38.
[21] Opus maius, trad. BURKE, parte I, p. 3.
[22] Vedi Opus maius, ed. BRIDGES, I, p. 36. Il motivo
del recupero del sapere degli antichi passato agli infedeli è costante nell’opera di Bacone, principalmente nelle opere
destinate a Clemente IV, ossia nell’Opus maius, Opus minus e Opus tertium. Invece per la dottrina della conoscenza
di Bacone si veda E. BETTONI, La dottrina della conoscenza di Ruggero Bacone: un tipico
saggio di aristotelismo neo-platonizzante, «Rivista di Filosofia Neo-scolastica», 59 (1967), pp. 323-342 e anche R. CARTON,
L’expérience mystique de l’illumination interiéure chez Roger Bacon,
Paris 1924 (Etudes de Philosophie Médiévale, vol. 3).
[23] V. Opus maius,
trad. BURKE, parte I, pp. 31-33.
[24] Opposte sono le conclusioni cui giunge Alessio circa i rapporti di Bacone col modello gnostico,
perché ritiene l’aggettivo “gnostico” sinonimo di “speculativo”, lasciando da parte le ragioni
storiche dello gnosticismo cristiano, vedi F. ALESSIO, Mito …, cit., p. 100
e sgg. Invece per le ragioni storiche dello gnosticismo si veda, C. VAGAGGINI,
art. Teologia, in Nuovo Dizionario di Teologia,
a cura di G. BARBAGLIO e S. DIANICH, Edizioni Paoline, Milano 1988, pp. 1558-1570.
[25] “… parecchi segreti della sapienza furono sempre trovati presso uomini semplici
e sconosciuti, piuttosto che presso uomini illustri in mezzo alla moltitudine”: Opus
maius, ed. Bridges, p. 23, (citato in F. ALESSIO, Introduzione a Ruggero Bacone,
Laterza, Bari 1985, p. 47).
[26] “Ma duplice è il modo di raccogliere tutta la sapienza, o in sintesi e in compendio,
o discutendo nel particolare le singole parti e nella disciplina propria … e perciò l’uomo aspira vanamente a
possedere una estesa, profonda e specifica dottrina, se prima non la saggia nell’universale e in compendio”: Opus tertium, pp. 18-19.
[27] Per una chiara ed esauriente esposizione della divisione delle scienze secondo Bacone si veda
F. ALESSIO, Introduzione a …, cit., pp. 50-118.
[29] F. NESTRI, Ruggero Bacone. La filosofia morale fine
e compimento della sapienza umana, «Sapienza», 35 (1982), p. 174.
[30] V. Moralis philosophia,
p. 4, 1-18.
[31] C. BÉRUBÉ, De la philosophie à la sagesse chez saint
Bonaventure et Roger Bacon, Roma 1976, p. 72 e pp. 84-85.
[32] “[La respublica fidelium] non è la Città di
Dio, né la stessa Chiesa. Benché essa debba ingrandirsi nell’illuminazione della Chiesa e preparare a suo modo l’avvento
della Città di Dio, essa è un vero popolo temporale dietro la guida della sapienza cristiana in vista della ricerca dei beni
di cui l’uomo può gioire nel tempo”: E. GILSON, Les métamorphoses de la
Cité de Dieu, Vrin, Paris 1952, p. 76.
[33] Dante, Paradiso, XII, 139-141.
[34] Ampi riferimenti sul gioachimismo possono essere tratti da M. REEVES, The Influence of Prophecy in the later Middle Ages. A Study in Joachimism,
Oxford 1969; per l’escatologia di Ruggero Bacone si veda D. BIGALLI, I Tartari
e l’Apocalisse: Ricerche sull’escatologia in Adamo Marsh e Ruggero Bacone, La Nuova Italia, Firenze 1971.
[35] “Dio, per la sua bontà infinita e per la lungimiranza della sua sapienza, non punisce
subito il genere umano, ma differisce la vendetta, fino a quando non sia completa l’iniquità, che non può né deve essere
tollerata ulteriormente. Infatti leggiamo nel Genesi che [Dio] non volle allora dare ai Patriarchi la terra promessa, perché
non era stata ancora portata a compimento l’iniquità degli Amorrei … Così in molti modi e tempi diversi Dio prese
e corresse la sua Chiesa. Ma ora che è completa la malizia degli uomini, è necessario che la Chiesa venga purificata attraverso
un ottimo pontefice e anche attraverso un ottimo principe, come con la congiunzione del gladio temporale al gladio spirituale;
o per causa dell’Anticristo, ovvero per qualche tribolazione, come per la discordia dei principi cristiani, sia per
i Tartari che per i Saraceni e per gli altri re dell’Oriente, secondo ciò che dicono le Scritture e le diverse profezie.
Infatti non vi è alcun dubbio tra i sapienti che la Chiesa debba essere presto purificata”: Compendium studii philosophiae, cap. I, pp. 403-404.
[36] Vedi E. GILSON, Les métamorphoses …, cit.,
pp. 106-109. |
|
|