I.
MORALE E TEOLOGIA NEL SECOLO XIII
I.1.
Un problema di metodo e di testi
A partire della prime riflessioni dei Padri della Chiesa sul male e sul peccato,
la questione essenziale concerneva la natura e il fine teologico di una morale che, in quanto cristiana, non poteva più proporsi
come momento autonomo d’indagine: essa veniva piuttosto trattata nel contesto di una teologia morale subordinata alla
teologia dogmatica: ambedue le discipline erano così, al massimo, due momenti distinti dell’unica teologia.
Se già sant’Agostino aveva parlato di una moralis disciplina e aveva distinto le regulae credendi
dal praecepta vivendi e se san Tommaso aveva dedicato tutta la seconda parte della Summa Theologiae ai problemi della morale, era pur certo che tali distinzioni non alteravano il quadro unitario delle scienze
teologiche: la teologia dogmatica procede secondo le verità prime della fede, mentre la teologia morale considera l’agire
umano in quanto rivolto al fine ultimo, conosciuto mediante la rivelazione e la grazia.
In realtà distinzioni del genere, come anche quella metodologica tra teologia positiva e teologia speculativa, si affermarono
piuttosto tardi in campo dottrinale, tanto che la qualificazione positiva del concetto di teologia morale fu formulata solo
nel XVII secolo. Lo stesso termine theologia, che per i Padri occidentali indicava originariamente realtà pagane, fu
ammesso nell’uso dottrinale solo nel XII secolo, grazie ad Abelardo, arricchendo le denotazioni tradizionali di fonte
agostiniana, quali doctrina christiana e sacra pagina, che si riferivano perlopiù al patrimonio di conoscenza
dei testi sacri[1].
Se già nel XII secolo, attraverso Anselmo prima ed Abelardo poi, si affermò una teologia speculativa che richiamava
a sé le ragioni della fede con gli strumenti della dialettica, allora è lecito domandarsi fino a quale punto la morale cristiana
potesse essere giustificata razionalmente. In realtà ciò comportava, piuttosto, una doverosa collaborazione tra i diversi
indirizzi della speculazione teologica, confermando il senso dell’etica cristiana attraverso la lettura e l’esegesi
dei testi biblici.
Dal De doctrina christiana di Agostino erano emerse capitali regole ermeneutiche sulle Sacre Scritture, che
lo stesso Agostino aveva mutuato dalla cultura latina[2]. Cicerone e Quintiliano con il loro modello di oratore, Varrone con la sua enciclopedia delle arti liberali, costituivano
i riferimenti essenziali di una eloquentia christiana che non si esercitava più sulla letteratura classica pagana, ma sui testi sacri.
L’insegnamento si articolava normalmente secondo lo schema
della lectio (lettura), dell’emendatio (correzione), dell’enarratio (spiegazione)
e iudicium (critica), come nella grammatica classica: nonostante ciò Agostino riteneva che il grammatico,
che commentava i testi sacri, non avesse diritto di formulare lo iudicium: tale veto veniva espresso e giustificato
sul fondamento rigorosamente morale che gli interpreti conferivano al giudizio, per questo motivo l’esegeta non doveva
essere solo un grammatico, ma un vir christianus
dicendi peritus, dovendo egli accostarsi con spirito
puro alla dignità somma del testo sacro.
Date queste premesse si può comprendere come il filone speculativo
degli studi teologici si sia affermato relativamente tardi in Occidente; lo stesso Agostino assimilava la teologia alla filosofia
platonica, ritenendola, piuttosto, un semplice momento propedeutico alla disciplina della fede cristiana.
Grazie alla ripresa degli studi di dialettica nel XII secolo, la
teologia cominciava ad essere più indipendente dalla tutela dei vincoli esegetici, essa iniziava a qualificarsi come intelligenza
razionale della fede, come sintesi in divenire della dottrina cristiana, avente sempre quale scopo la comprensione piena della
sacra pagina.
Peraltro la dottrina morale di allora appare quale singolare corollario
dell’esercizio di interpretazione della Bibbia e della tradizione patristica, che confermava, accanto al senso letterale,
l’esistenza di un senso allegorico per conoscere le verità di fede, di un senso anagogico per conoscere il bene cui
si doveva aspirare e finalmente di un senso morale o tropologico per conoscere ciò che si doveva praticare con coraggio.
Dall’altra parte l’indirizzo speculativo suggeriva
forme di trattazione delle questioni morali alternative rispetto all’antica riflessione esegetica.
In particolare furono proprio i Libri Sententiarum,
i più celebri dei quali furono quelli di Pietro Lombardo, a sistematizzare nella teologia morale la questione del peccato
originale e delle sue conseguenze sui peccati attuali, per non tralasciare, poi, i problemi di morale soggettiva proposti
da Abelardo nella sua Ethica seu Scito te ipsum[3].
Fino a questo punto si trattava, quindi, di illustrare una lettura
e una interpretazione più o meno allegorica dei testi biblici, senza tralasciare tutto ciò che l’apparato speculativo
della teologia poteva fornire al riguardo.
David Knowles traccia, al proposito, un profilo molto chiaro della
situazione della teologia tra XII e XIII secolo[4]: all’inizio del XII secolo non era ancora presente una idea distinta di come dovesse essere formulato e articolato
un testo teologico, allorché si presentò primariamente con più rigore il problema dell’insegnamento nelle scuole.
Infatti cominciava ad affermarsi quel genere di metodo e di disciplina
degli studi, che preludeva alla formazione delle grandi università del XIII secolo e si stava ormai superando la primeva dispersione
delle scuole monastiche e cattedrali, ma anche l’attività itinerante di singoli maestri come Abelardo, che avevano costituito
scuole di dialettica e di teologia dove trovarono studenti disposti a seguirli, attratti dalla loro fama e dal loro prestigio.
Il problema, prima per la teologia, poi per la stessa filosofia,
concerneva essenzialmente i testi di apprendimento e di consultazione.
Volendo redigere una rassegna degli scritti di teologia che fungevano
da modello per il XII secolo e oltre, si constatano non molti riferimenti: le grandi opere di Anselmo, sostenute da riferimenti
alla dialettica, i trattati più letterari di san Bernardo e della scuola mistica, infine le opere teologiche di Abelardo,
che, per il metodo dialettico, avevano tratto ispirazione da compilatori di collezioni canoniche dell’XI secolo, come
Ivo di Chartres[5]. Ma, accanto a questi scritti, erano collocate le Sententiae, ossia antologie di brani presi dai Padri e dai concili, che poi divennero
più complete e programmatiche, dando origine alle Summae
Sententiarum della metà del XII secolo: Ugo di San Vittore,
frattanto, tracciava una vasta sintesi teologica con il suo De sacramentis, non trascurandovi la teologia
della Chiesa e della consacrazione del sovrano temporale da parte del pontefice.
Fu proprio dalla teologia dialettica di Abelardo e dalla chiarezza
speculativa di Ugo di San Vittore che scaturì il Liber
Sententiarum di Roberto di Melun, allievo di entrambi.
In tale Summa veniva trattata tutta la teologia sulle fondamenta dell’auctoritas e della
ratio; tuttavia ben più densa doveva essere l’opera di Pietro Lombardo, che in ben quattro libri
di Sentenze trattava ordinatamente di Dio e della natura divina, della creazione del mondo, dell’Incarnazione
e della Redenzione, dei Sacramenti, della morte, del giudizio universale, dell’inferno e del paradiso.
Pietro Lombardo si era ispirato al suo maestro Abelardo per la
tecnica del sic et non e della concordanza finale delle auctoritates, mentre aveva tratto da Ugo di San
Vittore il rispetto del dogma. Da questa Summa
Sententiarum dovevano poi scaturire ampi commenti fino
alle grandi opere del genere di san Bonaventura e san Tommaso: è quindi piuttosto evidente che temi di teologia morale, in
primo luogo concernenti l’eziologia del peccato a partire dalla colpa dei progenitori, avessero dapprima trovato una
trattazione sistematica nelle Summae piuttosto che nelle circostanze occasionali delle quaestiones[6]-
Infatti solo nel XIII secolo la quaestio non fu più una mera esercitazione orale, bensì divenne la forma vera e propria del pensiero e del discorso teologico,
accanto ai più tradizionali Commenti alle Sentenze.
La quaestio disputata riguardava punti controversi, ma tuttavia ben noti del dogma, essa si svolgeva durante
feste e solennità religiose: la quaestio quodlibetalis prevedeva, invece, uno svolgimento meno formalizzato, sia per
la scelta del tema che per l’allargamento della base dei partecipanti; essa veniva sempre disputata durante i periodi
dell’Avvento e della Quaresima.
Tuttavia se si vuole guardare alla teologia morale, sarà più proficua una ricerca intorno alle raccolte e ai Commenti
alle Sentenze, piuttosto che intorno alle singole quaestiones, che privilegiavano temi di carattere metafisico
in relazione al dogma.
Fin qui appare piuttosto precario sancire in termini di rigorosa definizione uno statuto della teologia morale nel
XIII secolo, anche perché tali distinzioni potevano, allora, inficiare l’unità della sapienza divina.
Ma per quanto la teologia morale potesse apparire priva di denotazioni, quando ci si accingeva ad affrontare il peccato
originale, i peccati attuali, le virtù, i sacramenti e il ruolo dell’uomo nella creazione divina con la sua specificità
morale, la rivelazione costituiva il nucleo di ogni interpretazione.
Al contrario il problema si affermò in modo dirompente quando, accanto alla morale della fede, si affiancò una morale
che sarebbe stato improprio definire “recente”; infatti una lunga teoria di testi aristotelici e pseudoaristotelici[7], l’enciclopedia filosofica di Avicenna, i commenti di Averroè e le prime traduzioni della scuola di Toledo, cominciarono
ad affluire nelle facoltà delle arti dell’Occidente agli inizi del XIII secolo.
Tuttavia, prima di affrontare il tema della riscoperta di Aristotele, sarà importante illustrare l’organizzazione
degli studi dall’illustre complesso del trivium e del quadrivium fino alle facoltà delle arti del XIII
secolo.
I.2
Dal “trivium” e “quadrivium” alla facoltà delle arti
Il contenuto dell’insegnamento delle cosiddette “arti liberali”
era frutto di un’osmosi secolare, nella quale erano confluiti diversi elementi filosofici, scientifici, letterari e
pedagogici, delle culture greca e latina, assimilati e reinterpretati successivamente attraverso la religione cristiana.
Alla base di tutto ciò si fondava l’esigenza di un insegnamento, tanto propedeutico quanto generale, che educasse
gli studenti nelle attività successive più specializzate; così la competenza pratica trovava il suo fondamento naturale nell’istruzione
teorica e generale di coloro che erano destinati a svolgere le funzioni “alte” della società.
L’erudito romano Terenzio Varrone, (116-27 a.C.), offrì un contributo decisivo all’organizzazione delle
arti liberali; nei suoi nove libri di Disciplinae egli conferì per primo alle scienze fondamentali, trattate in ciascuno
di essi, il titolo di “arti liberali”: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia, musica,
medicina e architettura si opponevano, in quanto forme di sapere proprie dell’uomo libero, alle artes mechanicae
o serviles destinate agli schiavi.
Successivamente Marciano Capella, (V sec. d.C.), autore del celebre De nuptilis Philologiae et Mercurii, fissò
con i suo Satyricon libri IX le arti liberali in numero di sette, lasciando da parte la medicina e l’architettura.
Non è ben certa, tuttavia, l’origine storica della partizione tra il gruppo letterario (grammatica, dialettica
e retorica), avente per oggetto il discorso, e quello scientifico (aritmetica, geometria, astronomia e musica), che si occupava
del reale considerato nei suoi aspetti formalizzati; solo con Boezio apparì per la prima volta il termine quadrivium
come “quadruplice via verso la scienza”; richiamandosi ad Aristotele ed elaborando tale divisione della filosofia
alla luce di una speculazione teologica che rivendicava già i suoi diritti di “regina delle scienze”, egli distinse,
perciò, tra filosofia speculativa (teologia, matematica, fisica) e filosofia pratica (etica, politica, economica). Il quadrivium
veniva così inglobato da Boezio nello studio della natura, mentre il trivium occupava un posto a parte[8]; la logica, soprattutto, veniva considerata sia come parte della filosofia, sia come strumento utile a tutte le altre scienze.
Tuttavia il ruolo della filosofia morale, in sé e nell’organizzazione generale del sapere, non risulta affatto
ben definito nel suo oggetto e nella sua prassi proprio a partire dalla divisione eminentemente formale di Boezio.
Infatti egli riteneva che la filosofia pratica si distinguesse semplicemente secondo gli atti da compiersi e il loro
scopo: la trattazione era quindi esclusivamente riservata alle virtù, considerate prima nell’individuo, poi nella società
politica, infine nell’amministrazione, con una divisione che richiamava quella di Aristotele.
Tale partizione di contenuti e di competenze venne sostanzialmente ribadita nei secoli successivi da diversi autori,
ma il ruolo della filosofia morale continuava ad essere privo di referenti. Guglielmo di Conches, ascritto alla scuola di
Chartres del XII secolo, si interessò, infatti, più al divorzio di sapienza (teologia, fisica, quadrivium o matematica)
ed eloquenza (trivium), che non alla definizione della filosofia morale; peraltro essa non trovava più riferimenti
indiretti negli exempla dei grammatici, il cui insegnamento, nel corso del XII secolo e oltre, era stato sempre più
condizionato dalle regole della logica aristotelica, provocando sia la decadenza del culto delle “belle lettere”,
sia l’affermazione della cosiddetta grammatica speculativa, intesa come parte della logica; di fatto la morale, indipendentemente
dalla sua denotazione filosofica, si legava sempre più alle esigenze della pastorale, per ritrovare solo nel XIII secolo,
grazie ad Aristotele, un posto nell’insegnamento e nella preparazione accademica.
Ugo di San Vittore riprese più organicamente il profilo delle scienze già illustrato da Boezio: la scienza teorica
per la verità, la scienza pratica per i costumi, la meccanica per il lavoro quotidiano dell’uomo, la logica per ben
parlare e discutere; come in Boezio, la filosofia pratica o morale era divisa in morale individuale, politica e domestica
e, come in Guglielmo di Conches, la scienza teorica comprendeva teologia, fisica e scienze matematiche del quadrivium.
Da tutto ciò si può dedurre che, prima del XIII secolo, l’indagine sulla morale aveva perlomeno una collocazione
metodologica nell’organizzazione generale degli studi, fungendo più da nodo sintattico che non da area semantica[9].
Ma, mentre in Occidente si riscontrò una penuria di testi propriamente filosofici fino alla seconda metà del XIII secolo,
nel mondo arabo si affrontava per la prima volta un conflitto destinato a ripetersi nello stesso mondo cristiano: i mussulmani,
come i cristiani, erano fedeli a una religione rivelata, benché quella dei primi risultasse meno complessa e vincolante sotto
il profilo dogmatico.
Fu proprio sotto la dinastia degli Abassidi, nel IX secolo, che si affrontarono e si conobbero, quattro secoli prima
che nel mondo cristiano, i testi di Ippocrate, Galeno, Archimede, Tolomeo e soprattutto di Aristotele. La possibilità di una
costruzione metafisica e morale indipendente dalla rivelazione non era ancora evidente agli occhi dei filosofi arabi, come
non lo sarà per lungo tempo in Occidente, infatti l’utopia della sintesi perfetta, ossia completa, di fede e ragione
fu l’ispirazione delle più ardite architetture speculative dall’una e dall’altra parte.
Paradossalmente ciò che era motivo di discordia nella storia attraverso le Crociate, fu in parte rimosso nella storia
del pensiero, ove non era affatto raro incontrare vere e proprie iperboli su Avicenna, su Averroè, ma in primo luogo su Aristotele.
Ciò si verificò in seguito nelle facoltà delle arti dell’Occidente cristiano, che costituirono nel XIII secolo la via
di accesso agli studi superiori di teologia, coronamento della carriera universitaria; fu qui che cominciarono a diffondersi
le prime accidentate traduzioni degli antichi sapienti greci e dei filosofi arabi, che avevano appreso la versione platonizzante
dell’aristotelismo senza conoscere di esso la versione originale.
Tali traduzioni e commenti furono opera della scuola di Toledo, vero e proprio centro di traduzione costituito nella
prima metà del XII secolo dall’arcivescovo Raimondo, appellandosi alla collaborazione di ebrei di Spagna, che ben conoscevano
l’arabo e fungevano, perciò, da tramite essenziale. Domenico Gundisalvi fu uno di questi traduttori, ma di lui si ricordano
anche trattati e commenti influenzati dall’aristotelismo neoplatonizzante del Liber de causis e della Teologia
di Aristotele. Infatti, se della logica di Aristotele si nutriva già una proficua conoscenza sin dall’altro medioevo,
invece delle restanti opere del corpus si aveva una considerazione parziale, che le successive traduzioni finirono
con l’accrescere; tale parzialità di conoscenza era motivata dallo stesso modo con cui le opere dello Stagirita e di
altri erano giunte fino agli arabi, ossia attraverso la tradizione delle scuole siriache, di ascendenza neoplatonica.
Così, per lungo tempo, non si dubitò affatto dell’autenticità del Liber de causis e della Teologia
di Aristotele, ascritti al grande filosofo dell’antichità, mentre erano stati rispettivamente tratti dall’Elementatio
theologica di Proclo e dalle Enneadi di Plotino.
Nonostante ciò, qualcosa era rimasto dell’Aristotele originario, soprattutto nella ricchezza delle discipline
coinvolte nel panorama del sapere; fu proprio Gundisalvi a introdurre in Occidente l’aspetto molteplice delle discipline
filosofiche; infatti nel suo De divisione philosophiae comparivano per la prima volta la fisica, la metafisica, la
psicologia, la politica e l’economia; tuttavia la conoscenza di queste discipline, accanto all’etica, non era
solo dovuta ad Aristotele, ma anche all’enciclopedismo di Avicenna.
Nel XIII secolo le principali testimonianze dell’arricchimento della letteratura filosofica a Parigi sono offerte
da Roberto Kilwardby e da un’anonima guida agli esami della facoltà delle arti scoperta da Grabmann[10]. Kilwardby era stato maestro alla facoltà delle arti di Parigi prima di entrare nell’ordine domenicano nel 1245; egli
è l’autore di un’opera, De ortu et divisione philosophiae, considerata da più parti come la più importante
delle introduzioni medievali allo studio della filosofia. Il testo di Kilwardby e la guida anonima risalgono con ogni probabilità
a prima del 1245 e, pur nelle debite differenze, presentano un quadro dettagliato della letteratura filosofica; infatti si
assiste universalmente a un ritorno della classificazione platonico-stoica (philosophia naturalis, moralis, rationalis),
combinata con quella aristotelica, nonché della primaria distinzione tra filosofia teorica e filosofia pratica; quest’ultima, in particolare, risultava distinta nella guida anonima secondo “la vita dell’anima”
e ivi la teologia come “morale soprannaturale” costituiva la meta finale. Questo modo di vedere la scienza sacra
quale sapere di ordine pratico rispondeva alla concezione agostiniana della saggezza teologica, tuttavia questa divisione
era ben lungi dal rispettare, nel caso in questione, la subordinazione tradizionale delle scienze profane alla teologia, anzi
faceva di questa una semplice parte della filosofia pratica, con un procedimento che appariva alquanto eterodosso ai maestri
di teologia parigini.
Al contrario, per Kilwardby, la filosofia pratica era philosophia rerum humanarum, che si divideva in activa
(etica per l’azione, meccanica per la produzione) e sermocinalis (grammatica, logica, retorica), presentando
piuttosto una classificazione oggettiva, cioè ordinata secondo la distinzione degli oggetti conoscibili.
Di fatto i testi presi in considerazione per lo studio filosofico della morale nella facoltà delle arti di Parigi erano
nella prima metà del XIII secolo l’Ethica vetus, l’Ethica nova di Aristotele, il Timeo di
Platone e il De consolatione philosophiae di Boezio. Se in origine la facoltà delle arti fu una sorta di scuola di
arti liberali, propedeutica alle tre facoltà di specializzazione, ossia teologia, diritto, medicina, solo nel corso del Duecento
essa diventò un milieu filosofico, che si contrappose alla superiore autorità della facoltà di teologia, soprattutto
attraverso l’insorgenza ambiguamente ribelle del cosiddetto “averroismo” o “aristotelismo eterodosso”,
come corregge Van Steenberghen. Tuttavia anche prima del movimento averroista, gli “artisti”, cioè maestri e studenti
coalizzati, avevano operato in modo tale che anche a Parigi si potessero consultare testi aristotelici, che non fossero solo
quelli compresi nell’Organon logico-dialettico.
Per la prima volta si concepiva una filosofia non semplicemente risolta in dialettica finalizzata allo studio della
teologia, bensì arricchita dalle letture e dai commenti alla Metafisica e alle opere di storia naturale e di psicologia
di Aristotele.
Se da un lato ciò poteva rendere ancora più metafisicamente complesso il sistema della teologia come sapienza unitaria,
dall’altro le questioni sul dogma e sulle sue possibilità di spiegazione razionale cominciavano ad essere affrontate
non più in sede teologica, ma anche nella facoltà delle arti.
Per questo motivo i teologi iniziarono a temere la perniciosità di una tale infiltrazione filosofica, volendola ascrivere
alla riscoperta di Aristotele; furono così emanate le prime interdizioni, che, peraltro non impedirono il maturare di una
coscienza filosofica più autonoma rispetto alle imposizioni della teologia.
I.3
Conseguenze della riscoperta di Aristotele
L’Etica Nicomachea a paragone di altre opere di Aristotele fu
conosciuta e approfondita piuttosto tardi, anche perché l prima traduzione ufficiale fu quella di Roberto Grossatesta intorno
al 1246-1247; prima di tale data non si possono individuare riferimenti certi se non da alcuni commentari di origine orientale.
Infatti De Libera ritiene che una sorgente particolarmente importante dell’aristotelismo cristiano sia testimoniata
da una raccolta di commentari dell’Etica Nicomachea compilata a Bisanzio verso la fine del XII secolo[11]; essa comprendeva verosimilmente i commenti di Michele di Efeso sui libri quinto, nono e decimo, risalenti alla prima metà
dell’XI secolo, e quelli di Eustrazio, metropolita di Nicea, sui libri primo e sesto, composti tra l’XI e il XII
secolo.
La traduzione più antica dell’Etica, limitatamente ai soli libri secondo e terzo, fu condotta sul testo
greco agli inizi del Duecento e ad essa seguì una seconda versione dopo breve tempo. intorno al 1244 Ermanno di Carinzia redasse
un compendio dei primi dieci libri, basandosi su una traduzione araba, così tra il 1240 e il 1249 Grossatesta poteva tradurre
integralmente dal greco sia l’Etica sia i commentari di Michele di Efeso e di Eustrazio di Nicea.
Non a caso la traduzione di Grossatesta si collocava ufficialmente nell’ambito universitario di Oxford, che a
differenza di quello parigino, non pativa le interdizioni di certi testi considerati pericolosi per l’ortodossia.
Le conseguenze della riscoperta di Aristotele si manifestarono a Parigi tra il 1210 e il 1215, quando furono emanati
due divieti dell’autorità ecclesiastica; Innocenzo III, patrono dell’università di Parigi ancora nascente agli
inizi del XIII secolo, aveva conferito a tale istituzione particolari immunità e privilegi, ma anche i primi statuti che dovevano
mantenerla nella giusta direzione; pertanto Roberto di Courçon, che pur era stato magister artium a Parigi, sancì nel
1215 il divieto di tenere lezione sulla metafisica e sulla filosofia naturale di Aristotele e anche sui compendi di tali materie;
accanto a tali provvedimenti furono emanate norme statutarie sui libri di testo consentiti.
In realtà i provvedimenti del 1215 non avevano fatto altro che ribadire le decisioni del sinodo provinciale di Sens
del 1210, il quale aveva provveduto alla condanna delle dottrine ambiguamente panteiste di Davide di Dinant e di Almarico
di Bène e alla proibizione, sotto pena di scomunica, dell’insegnamento pubblico e privato di opere di Aristotele, che
con ogni probabilità erano la Fisica, la Metafisica e il De anima[12].
Ma questi divieti, considerando la proliferazione di testi dello Stagirita nelle letture private di maestri e studenti,
sortirono effetti pressoché nulli.
Essi, in realtà, concernevano solo le facultates artium dell’ambito parigino, per cui in altre
università come Oxford e Tolosa teologi e “artisti” potevano consultare liberamente opere che di diritto erano
state proibite. La stessa università di Tolosa fu per un certo periodo privilegiata rispetto a Parigi, proprio perché lì si
potevano consultare i libri altrove interdetti, fino a quando nel 1245 divieti analoghi furono estesi a quella stessa università.
Dopo Innocenzo III un altro pontefice, ossia Gregorio IX, si preoccupò di salvaguardare la superiorità e l’autonomia
delle istituzioni accademiche, pur cedendo al compromesso dell’esame e della correzione di testi aristotelici che potevano
essere ammessi negli studi. Così Gregorio IX, in un documento inviato ai maestri di teologia parigini nel luglio del 1228,
richiamò l’immagine veterotestamentaria della donna straniera che l’Israelita, sposando, doveva tuttavia considerare
sua schiava e prigioniera piuttosto che sua sposa legittima, rasandole perciò i capelli e tagliandole le unghie[13]. Fuor di metafora, il matrimonio tra teologia e filosofia poteva avvenire solo secondo le condizioni della teologia e a patto
che la filosofia fosse, per così dire, resa inoffensiva e umiliata dalla servitù nei confronti della teologia.
Lo stesso Gregorio IX, in un documento del 13 aprile 1231, raccomandò ai maestri di teologia parigini che non si mostrassero
quali filosofi, non dovendosi consentire da parte loro che la teologia, da regina, servisse la sua schiava, cioè la filosofia.
Tutte le scienze erano così subordinate alla teologia e quest’ultima si poteva servire di esse solo in quanto le potevano
risultare utili; a questo punto l’atteggiamento ufficiale della Chiesa segnava la presenza di un conflitto non più limitato
a semplici dissensi dottrinali o all’azione di conventicole eterodosse, ma ben più esteso.
Pertanto Gregorio IX, con la stessa bolla Parens scientiarum del 13 aprile 1231, con la quale aveva manifestato
i pericoli dell’invasione filosofica, sancì che i libri di filosofia naturale vietati nel sinodo provinciale di Sens
del 1210 non potessero essere consultati a Parigi fino a quando non fossero del tutto eliminati e corretti i sospetti di eterodossia.
Fu perciò istituita una commissione di esperti, presieduta dal maestro Guglielmo d’Auxerre, autore della Summa aurea, con l’incarico di esaminare i testi vietati affinché,
una volta corretti ed espurgati, potessero essere ammessi senza alcuna ombra di minaccia.
Di fatto i lavori della commissione non iniziarono mai per la morte
dello stesso Guglielmo d’Auxerre nel 1231, così Innocenzo IV poté rinnovare a Tolosa i divieti del 1210-1215 a più di
trent’anni di distanza dalla loro primitiva emanazione. Tuttavia il modo in cui le autorità erano intervenute attraverso
gli atti e i documenti ufficiali, non manifestò una totale chiusura nei confronti del problema sollecitato dalla riscoperta
di questi testi, anzi, come più volte si era già verificato nella storia del pensiero cristiano, si tentò da più parti un
procedimento di assimilazione e di sintesi speculativa. Ciò corrispondeva a una precisa visione della storia in funzione della
redenzione e della grazia divina, per cui si riteneva che la stessa filosofia, per quanto avesse operato prima della rivelazione
di Cristo, dovesse pur contenere nella sua razionalità i segni seminali del soprannaturale destino umano, così come era possibile
scorgere nelle diverse forme e qualità delle cose sensibili l’opera divina.
In passato Agostino e Gerolamo si erano dichiarati turbati dall’amore
per le “belle lettere” classiche, ora il grande complesso della dottrina aristotelica, arricchito da contaminazioni
neoplatoniche, arrivava a minacciare ancora più pericolosamente l’edificio della sapienza cristiana.
Se nel passato si erano sfruttati gli strumenti della grammatica
latina per l’esegesi dei testi sacri, della dialettica per la costruzione della teologia speculativa, ora le opere fisiche
e metafisiche di Aristotele arrivavano a completare il quadro; da una parte queste dottrine potevano essere piegate ai fini
dell’ortodossia, dall’altra non si doveva dimenticare che la concezione teologica di Aristotele, come quella necessitarista
dei filosofi arabi, era ben lungi dal somigliare al provvidenzialismo della rivelazione cristiana.
Sarebbe stato arduo conciliare le aporetiche conclusioni teologiche
di Aristotele con i dogmi della Trinità, dell’Incarnazione e della Redenzione che non offrivano vie di spiegazione razionale,
né potevano essere messi da parte per cedere il passo a una filosofia che suggeriva che l’unica qualità ammissibile
in Dio era quella intellettiva, essendo egli stesso l’unico oggetto degno del suo pensiero.
Tuttavia il contrasto tra filosofia e teologia si manifestò drammaticamente
solo nella seconda metà del XIII secolo, poco prima delle condanne del 1270 e del 1277; in particolare non si avvertì palesemente
fino a questa data il dissidio tra la morale filosofica dell’Etica di Aristotele e la morale cristiana, tanto
che nella sede della facoltà delle arti di Parigi proprio l’Etica fu l’unica opera di Aristotele ad
essere accettata nelle lezioni e agli esami, nonostante le interdizioni dei testi di filosofia naturale e di metafisica fino
alla metà del XIII secolo. Una tale presenza poteva essere in parte giustificata dalla scarsa conoscenza dell’opera
in questione prima della traduzione di Grossatesta, giacché ciò è confermato dall’assenza di contrasti tra le conclusioni
dei maestri di teologia e quelle dei docenti della facoltà delle arti nei commentari della stessa Etica della prima
metà del Duecento[14].
In realtà già dal 1240 le norme statutarie venivano aggirate in
modo tale che le opere, prima proibite, potessero essere consultate e lo stesso Ruggero Bacone riferiva di aver tenuto lezioni
sulla Metafisica e sulla Fisica di Aristotele come magister artium a Parigi proprio
in questi anni. Così, nonostante alcune conferme della Parens scientiarum da parte di Innocenzo IV e
Urbano IV, tutte le opere dello Stagirita potevano essere apprese, di diritto e di fatto, senza alcuna eccezione locale a
partire dal 1250 circa. Ciò che è certo è che nel decennio 1250-1260 il filosofo per antonomasia era reputato da molti una
sorta di Messia, senza timore di intaccare con una tale opinione il prestigio delle verità rivelate.
Tra gli stessi teologi iniziava così ad affermarsi il metodo delle
Summae, in cui tutta la trattazione dei dogmi presentava riferimenti filosofici e impostazione dialettica;
di questi autori si ricordano soprattutto il già citato Guglielmo d’Auxerre, Filippo di Grève con la sua Summa de Bono
e Guglielmo d’Auvergne.
Non sempre questi tentativi risultavano coerenti con l’ispirazione
cristiana che li animava all’origine, infatti come si poteva sperare di conciliare la dottrina agostiniana dell’illuminazione
divina dell’intelletto con quella aristotelica della conoscenza astrattiva se non animati da una grande fede nelle possibilità
di una sintesi? Tuttavia tale modo di procedere influenzò radicalmente le opere successive e Guglielmo d’Auvergne fu
l’ultimo maestro parigino prima della lunga serie di maestri provenienti dagli ordini mendicanti, che giungevano a Parigi
quale approdo della loro formazione.
Era
stato proprio Gregorio IX ad insediare gli ordini mendicanti nell’università parigina, così domenicani e francescani
arrivarono ad occupare nel giro di breve tempo le cattedre più eminenti della facoltà di teologia con un’autorità pressoché
incontestabile in materia di magistero intellettuale; ciò doveva suscitare le reazioni del clero secolare e di vescovi, che
ponevano in discussioni non solo una vocazione spesso motivata dalla possibilità di continuare gli studi, ma anche l’autonomia
di cui essi godevano improvvisamente all’interno dell’università.
Fu
proprio in seguito a una di queste controversie che fu ritardato il riconoscimento sia di Bonaventura da Bagnoregio che di
Tommaso d’Aquino quali maestri di teologia, in un clima di violenti contrasti e di campagne di protesta, che sembrava
annunciare le forti tensioni dottrinali della seconda metà del secolo tra “filosofi” e teologi.
I.4 Etica antica
e rivelazione cristiana
Il complesso dottrinale giunto in Occidente tra XII e XIII secolo recò con sé i riferimenti di una morale elaborata
indipendentemente da religioni rivelate.
Per etica antica si intese primariamente quella di Aristotele a cui si erano aggiunti più tardi elementi provenienti
dallo stoicismo e da altre filosofie dell’età ellenistica cui lo stesso cristianesimo non era estraneo. Inizialmente
la conoscenza dell’Etica Nicomachea attraverso traduzioni e commentari non comportò, come già rilevato, un conflitto
di competenze, ma basti pensare al De summo bono di Boezio di Dacia per notare quanto ci si fosse allontanati, in seguito,
dal concetto cristiano di beatitudine salvifica per approssimarsi a quello aristotelico di pura felicità intellettuale.
Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia recavano nelle loro opere le impronte del cosiddetto “aristotelismo eterodosso”
e, per quanto ci fossero delle zone d’ombra nel conflitto tra ragione e rivelazione da essi riformulato, la loro reazione
era indicativa del mutato clima filosofico.
L’atteggiamento nei confronti dell’aristotelismo da parte della scolastica fu sostanzialmente eclettico
per influsso di altre correnti, in specie di quella neoplatonica agostinizzante. Lo stesso Bonaventura, che pur si richiamava
a un forte agostinismo, non poté fare a meno di riconoscere l’autorità di Aristotele in seno alla logica e alla dialettica:
non solo, termini essenziali come materia e forma, potenza e atto, intelletto possibile e intelletto agente finirono con l’acquisire
valore di norma anche negli interpreti più fedeli dell’ortodossia. Anche nella dottrina morale, l’aristotelismo
rimise in circolazione concetti che avevano già subito una trasformazione attraverso lo stoicismo prima e il cristianesimo
poi; passioni, habitus, volontà, virtù cardinali quali prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, con l’analisi
di quelle teologali nel quadro della problematica generale delle virtù, diventarono riferimenti fondamentali dell’etica
cristiana. Ciò doveva apportare principalmente degli arricchimenti nella metodologia delle questioni morali e nella stessa
analisi delle passioni umane, mentre restava il discrimine del peccato originale al di qua del quale si dispiegava la storia
dell’umanità e della salvezza.
La civiltà cristiana aveva posto la caduta originale nel cuore delle sue cure teologiche e l’aveva intesa come
una “catastrofe” che aveva segnato l’inizio della storia. Il dato rivelato del peccato originale, benché
fosse stato posto nel Genesi[15], diventò di grande rilievo dottrinale solo nel Nuovo Testamento, in particolare nel passo dell’Epistola ai Romani
[16], dove l’apostolo Paolo sottolineava il parallelo tra Adamo e Cristo: come, infatti, per la colpa di Adamo la morte
iniziò a regnare per causa di un solo uomo, così, attraverso e a causa della giustizia di Cristo, era giunta a tutti la giustificazione
di vita; pertanto era abbondata l’offesa dove era sovrabbondata la grazia, perché dal sacrificio di Cristo si era ricevuto
più di quanto Adamo avesse fatto perdere, ossia la pace con Dio.
Tuttavia per i primi Padri della Chiesa fu difficile formulare concettualmente il peccato originale per l’ardua
interpretazione dei testi di riferimento nella Bibbia[17]; solo sant’Agostino fondò sistematicamente l’intera vicenda della storia umana sul peccato originale, prima del
quale l’umanità si sarebbe trovata nella condizioni primeva di giustizia e rettitudine. Con la trasgressione Adamo ed
Eva procurarono a se stessi e alla loro progenie il dolore e la morte, la quale prima del peccato poteva essere vinta mangiando
dei frutti dell’albero della vita; inoltre dopo di esso i progenitori furono sottomessi alla concupiscenza, per cui
le passioni non potevano più essere governate dalla volontà.
Il battesimo diventava per Agostino il suggello della rigenerazione sancita da Cristo, tuttavia esso eliminava solo
la macchia del peccato, senza annientare il dominio delle passioni che l’uomo era condannato a combattere. Era evidente
che tutto l’agire morale doveva essere determinato in base al peccato originale, dato rivelato, e ciò finiva con l’accrescere
enormemente ili peso della responsabilità umana di fronte alla necessità di giustificare l’esistenza e l’azione
di un Dio buono e provvidente, che non poteva aver procurato tante miserie all’umanità senza che questa non ne avesse
avuto colpa. Il peccato veniva così posto al centro della teologia cristiana, mentre la filosofia classica aveva nutrito al
proposito un concetto differente, più prossimo alla colpa individuale che non al peccato universale.
Dal momento che la morale cosiddetta pagana era giunta in Occidente principalmente attraverso Aristotele e la sua etica,
questi divenne il punto di riferimento di una morale eterogenea nelle sue fonti, che si appellava alla sua terminologia e
ai suoi concetti, senza che questa recasse in qualche modo con sé la nozione di peccato.
La colpa era, sostanzialmente, per il Filosofo un errore o un atto d’ignoranza e non la trasgressione di un precetto
divino o tantomeno un’ingiuria arrecata a un Dio, da lui concepito come ente impersonale.
La virtù stessa era intesa in senso razionale e la felicità dell’uomo era da lui considerata come la realizzazione
peculiare dell’attività dell’anima, diretta a un bene per niente estrinseco all’uomo stesso, bensì realizzabile
nel corso della sua esistenza.
La felicità consisteva, quindi, in un’attività propria dell’anima, ossia nell’esercizio della virtù
reputata premio a se stessa. Aristotele conferma tutto ciò nell’Etica Nicomachea, dichiarando: “Se dunque
è così, allora il bene proprio dell’uomo è l’attività dell’anima secondo virtù, e se molteplici sono le
virtù, secondo la migliore e la più perfetta”[18].
La colpa veniva quindi intesa quale errore di ragione, per cui chi commetteva il male lo faceva perché non aveva quella
perfetta conoscenza, determinante rispetto all’agire morale. Oltre a questo si profilava il problema della volontà e
del libero arbitrio, che lo Stagirita non era riuscito a determinare alla pari di altri concetti: nella sua dottrina la volontà
finiva con l’intervenire nelle azioni umane insieme alla componente razionale, senza che vi fosse tuttavia una reale
opposizione dei due elementi in questione, non potendosi sostenere che la volontà facesse capo a una presunta facoltà irrazionale
di un’anima, razionale per definizione. Infatti secondo Aristotele la volontà e la ragione aspirano al Bene, pienezza
di essere, per cui non si può accettare una scelta deliberata del male se non per ignoranza.
Successivamente lo stoicismo insegnò la relazione che l’agire umano aveva con l’ordine divino delle cose
e, grazie ad esso, i termini greci più o meno corrispondenti al concetto di peccato furono introdotti nell’uso generale[19].
Tuttavia anche nello stoicismo non esisteva la concezione di un Dio personale, cui l’offesa fosse rivolta direttamente
e non esistevano nemmeno gradazioni nella virtù e nel vizio, per cui tutte le colpe erano destinate ad essere uguali. L’approfondimento
e la definizione di temi che erano stati appena accennati, se non del tutto trascurati, dalla morale antica furono determinati
proprio dal cristianesimo; volontà, libero arbitrio, gradi della virtù e del vizio, peccato originale e soteriologia furono
sviluppati progressivamente grazie alla dottrina cristiana e solo insieme ad essi si poteva accettare la morale stoico-aristotelica
quale complemento della rivelazione.
Si può altresì sostenere che, mentre la logica e la metafisica di Aristotele erano destinate a puntellare le grandi
costruzioni delle Summae theologicae del XIII secolo, la morale aristotelica ebbe un’influenza non ben precisabile,
proprio perché non esisteva un contesto specifico di discussione. Furono composti dei trattati di teologia morale, sia in
seno alle Summae che al di fuori di esse, ma la morale stentava ad essere sviluppata indipendentemente dalla teologia;
infatti se si riconosceva alla teologia un valore eminentemente pratico, come via di accesso alla salvezza e alla beatitudine
in Dio, allora la disciplina morale entrava nei ranghi di un esercizio che equilibrava ragione e volontà, conoscenza e amore;
se invece si privilegiava il momento conoscitivo, razionale nell’esercizio della teologia, allora si riconosceva la
medesima come scienza nel senso aristotelico, cioè conquistata dallo sforzo umano, formalmente naturale, ma radicalmente soprannaturale
perché supponeva principi non veri ma credibili (e in ciò risiede la differenza tra Aristotele e san Tommaso). Tale fu, infatti,
la posizione di Tommaso d’Aquino che considerava, inoltre, la sapienza quale dono infuso dello Spirito Santo, superiore
per tale causalità alla scienza teologica.
Nonostante che la tradizione precedente avesse posto ogni maestro di teologia quale maestro di sacra pagina
e interprete della Bibbia, il modo di spiegare quest’ultima divenne sempre più legato all’ontologia, alla metafisica
e alla dialettica, separato dalla lettera delle Scritture.
Veniva così abbandonata nella prospettiva scolastica l’applicazione esegetica dei quattro sensi della Scrittura,
mentre il teologo preferiva dedicarsi quasi esclusivamente a quaestiones metafisiche, dialetticamente astratte dalle
realtà di interesse tradizionale.
Nell’antico ideale gnostico-sapienziale dei Padri della Chiesa, invece, tutto il mistero cristiano fu oggetto
d’indagine ad ogni livello: ermeneutico, storico, ontologico, cosmologico, etico, mistico ed escatologico; era quindi
attuabile una conoscenza superiore, salvifica, di pensiero, di esperienza e di intuizione, che beatificasse l’uomo concreto
quanto fosse possibile su questa terra.
Per questo motivo in Bonaventura il modello scolastico di teologia, pur restando ancora tale, è più vicino alla tradizione
gnostico-sapienziale: il bene è l’apice dell’essere, la volontà è più dell’intelletto, la scienza non è
sui ipsius causa ma ut boni fiamus; in tale senso la morale umana, come qualsiasi altra disciplina di studio,
si perdeva nel supremo disegno dell’agire divino dalla creazione in avanti.
Tommaso, richiamandosi ad Aristotele, riconobbe alla morale una funzione architettonica nella gerarchia del sapere,
ma tuttavia si era ancora ben lontani da quanto asseriva isolatamente Ruggero Bacone:
Hec vero practica
vocatur moralis et civilis scientia, que ordinat hominem in Deum et ad proximum et ad seipsum ... Hec enime sciencia est de
salute hominis, per virtutem et felicitatem compelnda; et aspirat hec sciencia ad illam salutem, quantum potest philosophia
... hec sciencia est nobilior omnibus partibus philosophie ... de eisdem negociatur hec sola sciencia vel maxime de quibus
theologia ... Set theologia est scienciarum nobilissima; ergo illa que maxime convenit cum ea, est nobilior inter ceteras[20].
Bacone sosteneva ciò in polemica
con le tendenze metafisicizzanti e dialettizzanti della teologia scolastica : la morale stoica, conosciuta attraverso
la lettura di Seneca, gli aveva rivelato una profonda eticità che sembrava invece dispersa nel proliferare dei diversi indirizzi
speculativi della scolastica; interpretando il paganesimo subordinatamente alla rivelazione (e non poteva fare altrimenti
quale uomo del suo tempo), Bacone intendeva così recuperare l’antico ideale gnostico-sapienziale con un ritorno dovuto
alla lettura della sacra pagina.
Per lui la rigenerazione della teologia passava attraverso la filosofia
e in specie attraverso quella parte che era più vicina nei suoi fini alla teologia, ossia la morale.
Tuttavia lungi da Bacone contestare il primato della teologia:
egli era stato maestro alla facoltà delle arti e, benché francescano, vedeva la realtà della conoscenza più da filosofo che
non da teologo rigoroso, perciò era convinto che la teologia non dovesse essere solo speculativa e dialettica, ma che essa
dovesse tornare ad occuparsi dell’uomo e della natura, rapportandoli ovviamente a Dio.
Ed era proprio dalla realtà umana nella sua intierezza che non
si doveva escludere per la sua importanza e ricchezza il messaggio degli antichi filosofi pagani, tanto più encomiabili quanto
più si fosse ricordato che essi non avevano potuto ricevere il dono della rivelazione e della grazia.
Gli ideali di Bacone ricevono una illuminazione particolare grazie
all’utopia della respublica fidelium, con la quale egli intendeva preconizzare la rigenerazione temporale
e spirituale della cristianità; su questo e sul valore di scienza da attribuirsi distintamente alla filosofia morale e alla
teologia si tornerà nei capitoli seguenti, anche confrontando la posizione di Bacone con l’auctoritas aristotelica.
I.5
Sigieri di Brabante e l’aristotelismo eterodosso
Non
si dovrebbe commettere l’errore di ascrivere qualsiasi novità filosofica e teologica del secolo XIII alla sola riscoperta
di Aristotele, essa fu piuttosto il catalizzatore di una serie di reazioni già in atto e provvide a conferire ispirazione
e sostegno a un movimento di ribellione nei confronti di un’ortodossia spesso soffocante.
Il fatto che Bacone si fosse appellato alla morale piuttosto che
alla teologia per sostenere la palingenesi della cristianità indica piuttosto un diverso atteggiamento nei confronti della
filosofia, la quale era per lui essenzialmente morale: se la filosofia persegue la Sapienza e se essa “è stata concessa
a motivo e in vista della salvezza”, allora “la morale è filosofia e la filosofia è morale”[21]; la filosofia è radicalmente imperfetta, perché oggetto di conquista progressiva nella storia dell’umanità, pur attraverso
le vie spesso errabonde della ragione; solo così si esplicita il fine della sapienza cristiana che, invece,
la teologia, possiede perfettamente.
Motivazioni del genere non potevano solo essere di origine aristotelica,
ma trovavano più profondamente la loro sorgente nella tradizione scritturale e nelle circostanze storiche, che da più parti
imponevano una palingenesi[22].
Diverso è il caso che l’aristotelismo eterodosso presentò
all’attenzione dei teologi del tempo: fino a un certo momento, nell’ambito delle università, gli intellettuali,
maestri e studenti, avevano goduto di una provvida libertà pur restando entro i confini dell’ortodossia.
Tuttavia la comparsa di un gruppo di filosofi, qualificati come
aristotelici integralisti, radicali ed eterodossi fu la causa diretta del mutamento di rotta nell’università parigina;
alla testa di questo gruppo stavano due maestri della facoltà delle arti, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, fino a quando
il movimento stesso fu oggetto di due condanne successive, nel 1270 e nel 1277, da parte del vescovo di Parigi Tempier.
Per comprendere la portata della rivoluzione dottrinale che essi
sostenevano, occorre valutare il loro rapporto, più o meno fedele, nei confronti di Aristotele e dei commenti di Averroè,
che avevano finito col falsare inevitabilmente il pensiero dello Stagirita.
In primo luogo non si trattò di una vera e propria rivoluzione
dottrinale: i maestri della facoltà delle arti, rifacendosi ad Aristotele e ad Averroè, avevano piuttosto costituito un nuovo
milieu speculativo in un contesto accademico da sempre considerato inferiore a quello teologico. In
secondo luogo non è possibile ottenere risposte storicamente valide sull’effettivo rapporto fede-ragione da parte di
chi faceva della ragione una propria bandiera intellettuale senza rinnegare, in molti casi, i principali articoli di fede.
Ed è proprio qui che subentrava la dottrina della “doppia
verità”, che molti vollero attribuire ad Averroè e agli averroisti latini: in realtà il filosofo arabo, come sostiene
Gilson, di fronte a una conclusione necessaria della ragione in contrasto con la fede, mostrava di seguire la fede, benché
Van Steenberghen sia di avviso contrario al proposito: per lo studioso di Lovanio Averroè è razionalista e non riconosce altra
verità se non quella precipuamente filosofica[23].
Nemmeno per Sigieri sono mancate le polemiche: Van Steenberghen,
che molto ha contribuito a fissare la vicenda di Sigieri e il suo pensiero, lo presenta come un sostenitore dell’aristotelismo,
per nulla vicino all’averroismo. Gilson, al contrario, non manca di sottolineare più giustamente la serpentina influenza
di Averroè prima e dopo la controversia specifica in cui Sigieri si trovò coinvolto[24]; in realtà, anche se Van Steenberghen ha fatto notare che in nessuna delle opere di Sigieri è presente la locuzione “doppia
verità”, il principio era adottato quale agevole via di scampo per chi intendesse seguire la ragione senza incorrere
nelle persecuzioni di una fede abiurata.
Sigieri, come Averroè, sosteneva perciò la validità di ciò che
era stato appreso mediante la rivelazione di fronte alle conclusioni contrarie della ragione, tuttavia è lecito domandarsi
fino a che punto questa fosse un’affermazione meditata e non di circostanza, soprattutto perché Averroè poneva la conoscenza
filosofica alla sommità della gerarchia del sapere; la scienza è più perfetta della fede sotto il profilo della conoscenza,
ma quali contenuti si devono attribuire al sapere rivelato? Né Aristotele, né Averroè potevano dare una risposta a questo
interrogativo, proprio perché era stata la fede cristiana, per prima, a imporre drammaticamente il problema.
La prima condanna del 1270
comprendeva quindici proposizioni, tredici delle quali erano di ispirazione averroista, tra queste l’unicità dell’intelletto
possibile per tutta la specie umana, l’eternità del mondo, la negazione del libero arbitrio, il determinismo astrologico
e la mortalità dell’anima e la negazione dell’esistenza della provvidenza divina nei confronti dell’umanità;
solo nel 1277 si arrivò a bollare la famigerata tesi della “doppia verità”, senza la quale non si aveva più alcun
modo di sostenere che un enunciato poteva essere simultaneamente falso dal punto di vista della fede e invece vero secondo
ragione.
Le duecentodiciannove proposizioni condannate nel 1277 non erano
tutte averroiste, infatti anche san Tommaso e Avicenna furono inclusi nel numero degli autori bollati; la condanna stessa
si dirigeva, inoltre, contro asserzioni di ordine morale, come quelle sostenute nel trattato sull’amor cortese di Andrea
il Cappellano.
Tuttavia l’eterodossia fu più motivava dalla lettura e dall’interpretazione
della metafisica e della psicologia di Aristotele, che non dalla sua etica, la quale, fatto straordinario, proprio intorno
al 1250-52 veniva studiata ancora facoltativamente a Parigi.
Solo nei nuovi statuti del 1255, che segnarono l’introduzione
definitiva dell’aristotelismo nella facoltà delle arti parigina, furono incluse tutte le opere dello Stagirita: oltre
alle sue logica vetus e logica nova con i commenti di Boezio, erano presenti di diritto l’Ethica vetus e l’Ethica nova in quattro libri, la fisica e la metafisica con tutti i testi e i commenti
relativi e soprattutto il trattato sull’anima.
Questi dati attestano che i maestri dell’epoca attribuivano
un’importanza capitale allo studio della psicologia e della gnoseologia, in ragione della stretta parentela che la dottrina
dell’astrazione e la spiegazione dell’attività intellettiva avevano con le questioni di logica, di grammatica
speculativa e di morale, cristianamente intese, più di quanto apparisse dall’Etica Nicomachea[25].
Il trattato De anima di Aristotele aveva
così aperto la strada ai commenti di Averroè sull’argomento e ciò aveva rivelato agli “artisti” di Parigi
un insieme di problemi e di difficoltà di cui essi avevano appena supposto l’esistenza.
Proprio la traduzione latina dei commenti di Averroè ad Aristotele
da parte di Michele Scoto, astrologo della corte di Federico II, aveva consentito di fare ampio ricorso a questi scritti già
dopo il 1230; solo così i maestri della facoltà delle arti di Parigi giunsero alla conclusione che non si poteva commentare
Aristotele senza l’ausilio di Averroè.
A prescindere dalle opinioni circa le qualità dell’aristotelismo
di Sigieri, non si può peraltro obiettare che, proprio intorno al 1264 si sanciva una maniera di filosofare, la quale teneva
in ben poco conto le esigenza della fede cristiana e della teologia.
Così per Gilson l’averroismo segnò la constatazione di un
disaccordo di fatto tra certe conclusioni della filosofia, ritenute necessarie per ragione, e certi insegnamenti della rivelazione
cristiana, ritenuti veri in base alla parola di Dio[26].
Gli
scritti morali che Van Steenberghen attribuisce senza ombra di dubbio a Sigieri, o almeno a studenti che riportavano le sue
lezioni, sono cinque Quaestiones morales, ispirate alla trattazione delle virtù, e il Liber de felicitate,
ma interessano inoltre le opere dedicate all’attività dell’anima, quali il De intellectu
e il De anima intellectiva e non deve nemmeno passare sotto silenzio il De summo bono di Boezio di Dacia, altrettanto esplicativo
sulla morale teorizzata dagli averroisti[27].
La filosofia morale di Sigieri
doveva ispirarsi fedelmente all’aristotelismo integrale, almeno all’inizio della sua carriera; essa doveva essere
analoga a quella espressa nei commentari all’Etica Nicomachea di quel tempo. L’universo creato ha per fine
ultimo Dio e tutta la creatura tende a limitare la perfezione dell’ente supremo secondo la capacità della sua natura.
L’uomo è perciò sottomesso a questa legge universale e l’azione morale ha per oggetto la realizzazione della perfezione
umana; così le virtù sono disposizioni a operare il bene, che si acquisiscono con la ripetizione degli atti, conformemente
alle prescrizioni della ragione. La beatitudine umana consiste quindi nella contemplazione intellettuale dell’Ente supremo
e dell’ordine universale.
Nel De felicitate
si ritrova l’identificazione dell’intelletto agente con Dio, già presente nel De intellectu, opera probabilmente
coeva; gli intelligibili astratti dalle cose sensibili non sono che una infima quota dell’universo conoscibile e dal
momento che ciascun intelletto umano tende alla perfetta attuazione dell’intelletto possibile dell’umanità, tale
desiderio di conoscenza può essere pienamente soddisfatto solo dall’adesione perfetta all’intelletto agente, che
è Dio stesso e possiede in atto la scienza perfetta.
L’intelletto possibile
è eternamente unito all’intelletto agente, così come è eternamente unito alla specie umana, altrimenti non ci sarebbe
ombra di saggezza in questo mondo; gli uomini non partecipano che progressivamente all’attività dell’intelletto
possibile e perciò solo pochi eletti pervengono alla contemplazione perfetta e alla beatitudine al termine del loro itinerario
intellettuale.
Il De felicitate
univa così la dottrina aristotelica della contemplazione, perfezione suprema dell’uomo, con il monopsichismo averroista
da cui Sigieri doveva recedere dopo le condanne. Se Sigieri aveva esposto la sua dottrina morale in questi termini, non deve
quindi stupire che il suo collega Boezio di Dacia escluda nel suo trattato sul sommo bene la beatitudine di ordine soprannaturale;
infatti egli aveva impostato il problema da “filosofo” della facoltà delle arti chiedendosi, perciò, quale fosse
il bene supremo accessibile all’uomo, quaggiù, secondo ragione.
E anche Boezio di Dacia
aveva additato una felicità intellettuale, sia nel compimento del bene secondo le prescrizioni dell’intelletto pratico,
sia nella conoscenza del vero con l’intelletto speculativo.
L’intellettualismo
assai accentuato di questa dottrina nei casi sia di Sigieri che di Boezio comportava una minaccia di determinismo psicologico,
cioè la volontà, per procedere all’azione, appariva determinata da un motivo razionale, in più condizionata a priori
dal determinismo astrologico. In realtà la libertà umana viene salvaguardata da Sigieri scostando l’attività della volontà
dal determinismo assoluto, infatti nelle Quaestiones de causis egli sostiene che l’influenza celeste non si esercita
direttamente sull’anima intellettiva ma, attraverso l’alterazione che il cielo produce sui nostri corpi, essa
suscita il pensiero e il desiderio di certe cose, producendo effetti non determinanti per la volontà.
Tuttavia solo guardando
al complesso generico di alcune proposizioni averroiste, condannate nel 1277, si nota un atteggiamento di reale opposizione
alla religione e alla morale cristiana, più di quanto appaia dai laconici atteggiamenti di Sigieri e di Boezio di Dacia: la
religione cristiana impedisce di imparare, in essa ci sono errori e favole come nelle altre, per cui ciò che dicono i teologi
non è fondato e non aggiunge nulla a quanto sa il filosofo.
Per quanto si sia all’oscuro
dell’origine di queste tesi, non si deve peraltro dubitare del fatto che esse sostenevano che la vera saggezza è quella
filosofica, oltre la quale non vi è alcuna condizione di superiorità. Il sapiente trova così nelle scienze della ragione l’appagamento
di ogni sua aspirazione, perché da esse promanano le virtù morali illustrate da Aristotele; l’esercizio di tali virtù
comporta l’accesso alla felicità umana già in questa vita, che è l’unica data all’uomo. Non vi è quindi
più spazio per i doni della grazia divina, ossia per le virtù soprannaturali infuse, ma neanche per l’umiltà, l’astinenza
e la continenza predicate dal cristianesimo; si ritornava così a una morale naturale fondata su virtù riservate ad una élite
di intellettuali, laddove la morale cristiana aveva indicato la via della felicità e della salvezza anche a chi era sprovvisto
per natura e condizione, di abiti intellettuali.
Questa morale naturale si
imponeva con tutta la forza della filosofia aristotelica, tuttavia aveva il torto di escludere a priori il piano della grazia
e della soprannatura, senza le quali non ci poteva essere alcun accordo con la fede e l’opera di apostolato, e di qui
sorgeva l’opposizione veemente di Raimondo Lullo nei confronti dell’averroismo.
D’altra parte una
morale pagana, che si presentava altrettanto pura quanto quella cristiana, sollecitava l’attenzione di chi, come Ruggero
Bacone, auspicava una respublica fidelium; egli non disdegnò affatto di inserire nella sua Moralis philosophia
precetti tratti da Aristotele, Cicerone e soprattutto da Seneca, pressoché annullando la citazione delle Sacre Scritture,
di cui paradossalmente intendeva rivitalizzare lo studio. Si vedrà come una combinazione del genere, con il supposto antagonismo
tra filosofia morale e teologia, solleciterà l’attenzione dei maestri “tutori” dell’ordine francescano
in particolare, con san Bonaventura in testa.
I.6
Morale, psicologia e linguaggio
Alain de Libera sottolinea la presenza di una costante strutturale nel pensiero medievale, che corrisponde alla concezione
di origine ellenistica del pensiero come processo di attualizzazione del pensante nel pensato, del soggetto intelligente nell’oggetto
intelligibile[28]. I rapporti tra questi termini, ossia tra pensante, pensato e pensiero, costituiscono il dominio della psicologia anche nel
pensiero medievale, ma determinano inoltre la struttura profonda che lega tale psicologia ad altri rami del sapere: ontologia,
semantica, cosmologia ed etica. La psicologia sollecitava infatti alcuni interrogativi a proposito del soggetto pensante,
della natura dell’universale pensato e del fine dell’attività di pensiero; risposte differenti a queste domande
dovevano sortire diversi esiti nella riflessione morale, ma indubitabilmente ciò dipendeva, ancora più a monte, dalla teologia,
che finiva col condizionare la natura stessa dell’interrogare filosofico. Tuttavia tale condizionamento non lo si deve
intendere esclusivamente come limite del pensiero stesso, ma anche come spinta ad approfondire il senso eziologico e teleologico
di un’esistenza, che aveva, quale segno della sua origine e del suo fine, Dio nel suo peculiare rapporto con l’uomo,
creatura privilegiata.
Nella scolastica i modelli di riferimento di una dottrina dell’anima nel senso più ampio furono costituiti dalla
teoria trinitaria dell’anima di Agostino, da quella sull’attività dell’intelletto, riferita nei commenti
boeziani di logica, e infine dalla psicologia e dalla gnoseologia di Aristotele, filtrata attraverso traduzioni e commenti;
la conoscenza di Platone era minima, limitata al Timeo, tuttavia era presente molto platonismo sia nell’ortodossia
cristiana, sia nell’aristotelismo giunto in Occidente.
La distinzione di origine aristotelica tra intelletto in potenza e intelletto in atto con tutto ciò che essa lasciava
di aporetico circa l’origine divina della conoscenza, divenne uno dei punti di discussione nella scolastica medievale,
come nel secolo XIII lo era stata la questione degli universali.
Era legittimo dubitare del fatto che l’uomo fosse il soggetto dell’attività di pensiero e fino a quale
punto si poteva spingere la dottrina agostiniana dell’illuminazione? San Bonaventura arrivò, per così dire, a una mediazione:
salvò la distinzione aristotelica tra intelletto possibile e intelletto agente per spiegare la conoscenza inferiore delle
cose sensibili, ma riprese l’illuminazione divina per spiegare la certitudinalis cognitio delle ragioni eterne.
Altri, come Bacone, arrivarono a identificare l’azione dell’intelletto agente con quella dell’illuminazione
divina, rifacendosi alla gnoseologia di Avicenna, benché l’intelletto agente e Dio non fossero la medesima sostanza
per il filosofo arabo.
Tuttavia non solo la lettura del decimo libro dell’Etica Nicomachea poteva suggerire l’intimo legame
tra psicologia, etica e teologia; per Aristotele la felicità è un’attività conforme alla virtù della parte migliore
dell’anima:
Sia dunque essa l’intelletto oppure
qualcosa d’altro, che per natura appaia capace di comandare e guidare e avere nozione delle cose belle e divine o perché
esso stesso divino o perché è la parte più divina di ciò che è in noi, comunque la felicità perfetta sarà l’attività
di questa parte ... l’attività contemplativa ...[29].
La psicologia concepita nel De anima quale scienza dell’“animale vivente” e quindi
quale ramo della conoscenza della natura, si approssimava così nell’Etica Nicomachea alla teologia o perlomeno
alla nozione di teologia che allora lo Stagirita aveva affermato: in ciò consisteva l’aporia irrisolta del pensiero
aristotelico e perciò gli interpreti non poterono fare a meno di cimentarsi proprio in questi interrogativi, così come essi
erano stati proposti attraverso il De anima e l’Etica Nicomachea.
Senz’altro questi
furono i punti di riferimento principali per coloro che nella facoltà delle arti intendevano opporsi più o meno audacemente
al magistero dei teologi; in questo senso psicologia ed etica confluivano in un destino comune, pur rimanendo in seno alle
diverse formulazioni dell’aristotelismo delle facoltà delle arti e non solo di esse; la teoria peripatetica dell’intelletto
diventava pertanto un complemento all’ideale di saggezza illustrato da Aristotele nella sua dottrina morale.
La felicità riservata agli
uomini è squisitamente intellettuale, perché lo Stagirita ritiene che l’uomo, essendo per definizione “animale
razionale”, non possa essere beato, ossia felice, se non nella sua umanità e quindi nella sua razionalità[30]; si realizza così perfettamente il concetto di felicità possibile agli uomini in questa vita, cioè la contemplazione di Dio
e delle sostanze separate, che sola può dare pace all’intelletto umano; Aristotele rimane pertanto sul piano della natura,
ignorando ancora la grazia.
Tuttavia l’ispirazione
aristotelica è sorprendente proprio nella mistica speculativa del XIV secolo, primariamente grazie all’opera di Alberto
Magno: neoplatonismo, tomismo e afflato mistico sono le cifre della cosiddetta scuola di Colonia, i cui sviluppi rispetto
alla scolastica sono tuttora oggetto di interpretazioni controverse.
La dottrina peripatetica
in generale, pur rimanendo sul piano della natura e ponendo la felicità intellettuale quale supremo fine dell’uomo preso
nella sua essenza, fungeva storicamente da preambolo per chi intendesse approssimarsi secondo ragione e volontà all’ordine
della grazia divina e della beatitudine.
L’utopia della sintesi
speculativa e morale finiva così con l’ispirare gli autori più attenti all’ideale di una sapienza cristiana, che
abbattesse l’opposizione ormai manifesta tra filosofia e teologia, tra infedeli e cristiani, tra Chiesa e Impero come
istituzioni irriducibili l’una all’altra. In Bacone la filosofia diviene addirittura rivelazione concessa da Dio
prima dell’opera di redenzione di Cristo: la ragione stessa sarebbe allora da reputarsi donum piuttosto che datum
di natura, per cui il progresso dell’umanità, di cui Bacone è un tenace assertore nonostante i timori dell’Apocalisse,
risulterebbe condizionato dalla moralità della società umana e dal conseguente favore divino.
Ciò spiega perché la storia
dell’umanità per Bacone sia intervallata da momenti di progresso e da momenti di involuzione, stabiliti questi dalla
sapienza e dalla giustizia divina per punire l’orgoglio e la superbia degli uomini nell’uso della ragione: infatti
perché punire altrimenti l’uomo dell’uso di uno strumento secondo natura?
Vediamo quindi come la razionalità
sia strettamente legata all’uso stesso della ragione, per cui teoresi e prassi sono in Bacone solidamente integrate.
Lo stesso rilievo vale per
i problemi della lingua: lungi da costituire un oggetto d’indagine autonomo in seno alla logica e alla grammatica speculativa,
la lingua è fonte della moralità stessa, configurandosi come segno ed atto del pensiero. Si assiste infatti nel corso del
XIII secolo a un ritorno prepotente degli studi sul linguaggio, soprattutto in seno all’università di Oxford, dove era
più folta la presenza francescana e quindi forte il riferimento alla dottrina agostiniana, che aveva posto nella grammatica
e nell’esegesi il preambolo della disciplina morale e intellettuale, mentre a Parigi la dialettica e la logica tendevano
assai di più all’astrazione estrema.
La connessione pensiero-realtà
si realizza così nell’universo del linguaggio se e solo se gli universali sono concepiti quali realtà ontologiche e
le parole non sono considerate semplici flatus vocis.
L’auctor più
conosciuto del peccato della lingua, colui che contribuì a stigmatizzarlo e ad affidarlo alla tradizione posteriore, benché
non fosse un insigne teologo, è il domenicano di Lione Guglielmo Peraldo: egli è l’autore di una assai nota Summa
de vitiis et virtutibus, peraltro diffusasi fuori dall’ordine dei predicatori già intorno al 1250, ed ebbe il merito
di disporre questo trattato secondo le nuove esigenze del peccato della lingua; infatti, oltre la consueta partizione dei
vizi e delle virtù, egli aggiunge ai sette peccati capitali, indagati distintamente, un ampio ottavo capitolo, De peccato
linguae, comprendente l’analisi di ventiquattro peccati di parola. Il fatto che Peraldo voglia dare accesso a questo
peccato in seno al paradigma dei vizi e delle virtù tradizionali non è un caso sui generis; infatti la sua Summa,
come buona parte dei trattati destinati a seguirne le orme, era motivata dalla necessità principale di fornire copiosa materia
morale ai predicatori ed ai confessori; il peccato di parola diventava così una sorta di ottavo vizio, complementare al settenario
dei peccati capitali[31].
Di là da queste esigenze
pastorali, si riscontravano però ispirazioni singolari, come quella di Bacone, che faceva del peccato della lingua un aspetto
non meno importante della scienza del linguaggio in generale, a sua volta collegata alla teologia mediante l’esegesi;
in tale preambolo venivano individuate le cause di errore e solo così ci si poteva accostare con spirito puro e ragione retta
alla sacra pagina, troppo trascurata in favore di una teologia dialettizzante.
Non si deve peraltro dimenticare
un’altra testimonianza della cultura oxoniense come il De lingua; esso è un ampio trattato morale, composto intorno
al 1250 e attribuito spesso a torto al vescovo di Lincoln, Roberto Grossatesta, che riprende in gran parte la classificazione
proposta da Peraldo. In realtà trattati del genere, a differenza delle opere di Bacone e di altri, sono testi di taglio pastorale,
pressoché privi di cure teologiche, ma non scevri tuttavia di spirito autonomo; infatti il De lingua, pur ispirandosi
alla Summa di Peraldo, mostra l’intento di distinguere il peccato di gola in due diversi peccati che si connettono
con il medesimo organo: il peccato del gusto e quello della locutio, per cui l’aggiunta di un ottavo vizio alla
lista dei sette tradizionali, come in Peraldo, appare vana e incoerente all’autore del De lingua.
Egli va a individuare il
fondamento di tale associazione in una fonte più antica, ma solo di recente riapparsa nell’orizzonte culturale; accanto
ad Isidoro di Siviglia, Gregorio Magno e Ugo di San Vittore, si ripresenta infatti l’auctoritas di Aristotele.
Il De lingua esordisce
proprio con un’affermazione, lingua congruit in duo opera naturae, in gustum simul et locucionem, che è tratta
dal De anima di Aristotele[32]; le due funzioni del parlare e del mangiare sono così presenti nello stesso organo e tale dato empirico sta alla base della
specificità umana del linguaggio. Trattare la lingua, anche in un discorso di destinazione morale, significa in primo luogo
esplicarne con chiarezza la natura e le funzioni e per un discorso del genere non c’è che l’archetipo di Aristotele;
sotto questo profilo non si riscontrano solo nozioni di fisiologia, ma anche osservazioni morali, come è da attendersi in
un’opera del genere, e con ciò si viene senz’altro a confermare un esito, ossia quella immagine moralizzata della
natura che ha dominato il pensiero medievale; solo nelle grandi “enciclopedie” domenicane, da Vincenzo di Beauvais
ad Alberto Magno, si possono scorgere osservazioni descrittive, meno dipendenti da implicazioni morali, mentre nell’ambiente
francescano prevale la concezione agostiniana secondo cui la natura è una fonte inestinguibile di simboli atti a significare
sottostanti verità morali: in questa peculiare direzione si muove l’autore del De lingua, che procede a moralizzare
Aristotele, senza troppo curarsi delle implicazioni filosofiche che un tale metodo comportava: il pensiero dello Stagirita
è illustrato da interpretazioni che trasformano profondamente il senso delle sue affermazioni, rappresentando la natura repertorio
di simboli per il mondo morale. La lingua, per la doppia funzione di cui era investita, si presenta come nodo di comunicazione
tra corpo e anima: al primo serve nell’assunzione del cibo, alla seconda serve per manifestare la razionalità; la lingua
diventa così la figura della mediazione tra esteriorità ed interiorità, garantendo l’equilibrio e l’unità del
composto umano. Attraverso la concezione aristotelica della lingua, organo dotato di due funzioni, viene confermata la nozione
secondo cui la natura elimina il superfluo secondo la lex parsimoniae: tale norma, introdotta nell’ambiente oxoniense
da Grossatesta e ripresa costantemente da Bacone, è la cifra stessa della rigenerazione morale di cui il francescanesimo si
era fatto profeta, ma è anzitutto un principio metafisico da cui vengono analogamente inferite conclusioni morali.
Si vede quindi come un’opera
quale il De lingua, pur muovendosi al di fuori dell’ambito rigorosamente filosofico e teologico, possa confermare
taluni spunti dottrinali come riferimenti essenziali, pur semplificati, di una temperie culturale, piuttosto che di singoli
autori.
Non si deve inoltre trascurare
che le realizzazioni specifiche delle lingue particolari non costituivano per gli autori del Medioevo un problema teorico
per l’unità e l’universalità della lingua; l’uomo si qualifica per la sua razionalità, pertanto come esiste
una morale che esercita la sua coazione universalmente attraverso la ragione, così esiste una struttura profonda, una grammatica
universale che rispetta le regole della razionalità intrinseca di tutte le lingue.
Ciò è soprattutto evidente
nello sviluppo della grammatica speculativa o filosofica del secolo XIV, ma ancora più concretamente nelle riflessioni di
Ruggero Bacone sulla grammatica, specchio della mente umana, unica nella sostanza pur nella diversità dei suoi attributi accidentali.
Pensiero, linguaggio e morale
sono intrinsecamente uniti e sono universalmente validi nella loro struttura, al punto da costituire una sorta di prova dell’unità
e dell’equilibrio del composto umano, nonostante le differenti concezioni con cui veniva illustrata tale natura (ad
esempio con la pluralità delle forme o con l’unicità della forma sostanziale). Non a caso, come si vedrà nell’Opus
maius, Bacone addita proprio in un peccato di parola, ossia nella iactantia, la quarta e principale causa di errore
nella scienza; l’atteggiamento millantatore di chi magnifica impudentemente il poco o il nulla che in realtà sa, ostentando
una falsa sapienza e celando verbosamente la sua ignoranza, è l’obiettivo polemico di tutta l’opera baconiana,
il paradigma negativo cui si doveva opporre il binomio umiltà-sapienza, nonostante che lo stesso Bacone, nel suo zelo polemico,
fosse molto spesso venuto meno al principio da lui sostenuto.