Teologia e filosofia morale in San Bonaventura e Ruggero Bacone

Biograpia-Eng
Cap. I-Morale e teologia nel secolo XIII
Cap. II-Filosofia morale e utopia in Bacone
Cap. III-Filosofia e teologia
conclusioni

III.    FILOSOFIA E TEOLOGIA NEL «DIALOGO» DI SAN BONAVENTURA E DI RUGGERO BACONE

 

III.1. Teologia quale scienza pratica: Bacone, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia

        

         L’esistenza di un dialogo dottrinale tra Bonaventura e Ruggero Bacone non è provata da certe testimonianze documentarie, tuttavia si può giustificare la legittimità di una tale ipotesi in base a ragionevoli supposizioni tratte dalle circostanze storiche. Come Bonaventura era più volte intervenuto in sede dottrinale per ribadire l’unità della sapienza cristiana alla luce della maestà incontestabile della teologia e aveva tentato di invalidare le pretese perniciose dei filosofi della facoltà delle arti, così non doveva ignorare che, proprio in seno al suo ordine, si nascondevano infiltrazioni, a suo avviso, forse anche più perniciose del cosiddetto averroismo, che pretendevano di vestire del manto della fede verità crudamente filosofiche.

         Ruggero Bacone, proveniente dall’università relativamente decentrata di Oxford, doveva appartenere a questa schiera di maestri e confratelli, che Bonaventura, nella quarta conferenza delle Collationes in Hexaëmeron, attacca più o meno direttamente: essi, incantati dalla filosofia e dalle nuove scienze, non solo nella facoltà delle arti, ma anche presso le scuole dell’ordine e presso la facoltà di teologia, abbandonano la verità della Scrittura per votarsi allo studio delle “scienze filosofiche degli Egiziani” , ancelle della prima. In realtà le asserzioni di Bonaventura sono molto più evidenti e dirette nell’edizione delle Collationes in Hexaëmeron curata da Delorme, come appare dai rilievi mossi da Bérubé, che non nell’editio maior dei Padri di Quaracchi[1].

Multa hodie succrescunt studia adulterina, dum plurimi, qui deberent utiles esse Ecclesiae, relicto principali studio sacrae Scripturae, quae est domina omnium scientiarum, succensi flamma pernitiosae curiositatis, scientis illis aegyptis philosophicis, ancillulis Scripturae canonicae, insistunt … et quod maxime reprobum videtur, quandoque hoc faciunt qui ex professione sui status et Ordinis principaliter sacrae Scripturae sunt et debent esse mariti[2].

         Secondo Bérubé la convergenza di fatti e di testi è a favore di un attacco mirato di Bonaventura alla diffusione delle idee di Bacone, tuttavia esso ha, a nostro parere, un preciso valore storico solo se si accetta come edizione delle stesse Collationes quella di Delorme, la sola a confermare l’ipotesi di conflitto più o meno esplicito tra Bonaventura e Bacone, proposta da Bérubé. In realtà l’attacco potrebbe essere stato molto più generico, ma non per questo meno incisivo, e avrebbe finito col porre Bacone alla stregua dei numerosi philosophantes traditori della Chiesa, sottolineando, rispetto a un compatto fronte di nemici dottrinali, la convergenza della loro poliforme eterodossia e delle loro novità più sospette.

         Senza peraltro ammettere come versione più fedele all’originale l’edizione di Delorme delle Collationes in Hexaëmeron, ove gli attacchi di Bonaventura a membri del suo ordine appaiono più diretti, la conflittualità tra questi e Bacone è senz’altro innegabile, nonostante che vengano così a mancare le più esplicite prove documentarie. Infatti solo le disposizioni di Barbona del 1260 avevano offerto una sicura motivazione perché Bacone si fosse lamentato dei vertici del suo ordine, quindi di Bonaventura, accusati di essere insensibili all’utilità delle sue ricerche e all’inevitabile risonanza di esse in tutta la cristianità; in realtà tali disposizioni, come sappiamo, avevano colpito non solo Bacone, ma tutti i suoi confratelli, configurandosi più come provvedimento politico che non meramente punitivo.

         Peraltro, una delle vie traverse del serpentino conflitto tra san Bonaventura e Bacone è la confluenza di alcuni aspetti della dottrina di quest’ultimo con il pensiero morale di Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, sebbene egli avesse preso, come già visto, le opportune distanze da certe conseguenze dell’aristotelismo eterodosso; guida di questo percorso sarà il saggio di Jeremiah Hackett sul valore della sapienza pratica e della felicità nella moralis philosophie di Ruggero Bacone[3].

         Hackett si chiede se la concezione baconiana della filosofia morale quale scienza pratica sia stata effettivamente condivisa da qualche contemporaneo e se Bacone non sia perciò una voce isolata; l’analisi comparata dei testi del maestro francescano e di quelli di Sigieri e di Boezio sulla medesima materia mostra, in realtà, che l’intervento di Bacone ben si inserisce nel contesto delle diatribe provocate dagli “aristotelici radicali” tra il 1266 e il 1270.

         Sigieri di Brabante nelle sue Quaestiones in metaphysicam distingue, infatti, la teologia basata sulla Sacra Scrittura dalla teologia intesa come parte della filosofia[4]; la teologia basata sulla Scrittura procede da principi appresi attraverso la rivelazione divina, mentre quella intesa come parte della filosofia procede da principi noti mediante la luce naturale della ragione; inoltre la prima estende la sua considerazione alle cose superiori all’umana ragione, laddove la seconda limita il suo interesse a ciò che può essere appreso attraverso la ragione medesima e la natura delle creature.

         La teologia della Sacra Scrittura è, perciò, più universale nel suo ambito di quanto lo sia la teologia intesa come parte della filosofia e i suoi principi sono più noti e certi, conferendo così maggiore certezza a tale scienza nella sua integrità. Tali principi promanano dalla rivelazione e sono quindi incontestabili, irrefutabili e infallibili; secondo Sigieri la teologia che si occupa della rivelazione è senz’altro una scienza pratica e attiva, giacché tutte le azioni e le questioni pratiche, che guidano lungo la via della salvezza, sono di pertinenza della Sacra Scrittura e non della teologia come parte della filosofia. Sigieri, riferendosi ad Aristotele, continua rilevando che una scienza è degna di essere sapienza solo quando essa consideri le cause prime e i primi principi, perciò solo la teologia basata sulla Sacra Scrittura merita questo appellativo, dal momento che essa si occupa più degnamente di Dio e delle sostanze separate, proprio a partire dalla rivelazione, superando i limiti delle possibilità razionali della teologia quale pars philosophiae, che pur indaga la medesima materia, ma speculativamente.

         Anche Bacone, come già visto nella seconda parte dell’Opus maius, aveva distinto due forme di teologia, l’una propriamente filosofica, speculativa e metafisica, l’altra fondata sulle sacra pagina, rispetto alla quale la moralis philosophia doveva essere la scienza più prossima. Per questo motivo Hackett ritiene che Sigieri abbia probabilmente conosciuto la Moralis philosophia, composta tra il 1267 e il 1268, in un momento di particolare revisione critica del suo pensiero, soprattutto in merito alla natura del controverso rapporto tra filosofia e teologia.

         In realtà Sigieri, per quanto avesse cercato di modificare alcune radicali conclusioni della sua dottrina, troppo invise all’ortodossia, non cessò mai di muoversi nel contesto del dissidio insanabile tra ragione e fede, dissidio che, invece, Bacone non ammise affatto, proponendo una ragione e una filosofia quale dispiegamento in divenire della rivelazione primitiva.

         Sigieri, secondo le conclusioni di Van Steenberghen, si sarebbe limitato a sviluppare filosoficamente alcuni argomenti, più preoccupato di chiarire l’intentionem philosophorum, che non di raggiungere una verità perfetta, ma per lui in attingibile con la sola ragione; ed è su questo tema della verità che egli sembra non dire alcunché di nuovo, manifestando un’opinione comune ai maestri medievali che si interessavano di problemi fisici e cosmologici, quali Alberto Magno, Roberto Grossatesta e lo stesso Ruggero Bacone; tuttavia nel loro caso, tale convinzione era più motivata dalla constatazione dell’infinita ricchezza veritativa dell’esperienza piuttosto che da affermazioni di principio.

         In questo modo gli aristotelici eterodossi tentavano di affermare ambiguamente, attraverso i limiti veritativi della conoscenza filosofica, la necessità di una rivelazione divina. Nessuno poteva dimostrare con argomenti apodittici né l’eternità del mondo né la sua novità, perciò si doveva concludere che la non eternità del mondo doveva essere accettata quale dono di una rivelazione, il cui valore veritativo non era paragonabile a quello della ragione.

         Dietro queste conclusioni si celavano, tuttavia, prepotenti insidie agli occhi dei teologi, dal momento che la “ragione” dei filosofi della facoltà delle arti continuava di fatto a minacciare e contrastare, nella sua pretesa autonomia, l’insegnamento della fede e non sarebbe bastato sostenere il primato di questa per annientare un dualismo inammissibile. Così i tanti sforzi dottrinali per subalternare la conoscenza razionale all’illuminazione divina e al potere della fede, venivano vanificati dall’ammissione di due forme di conoscenza non analoghe e perciò suscettibili di contrasto, l’una secondo ragione, l’altra secondo rivelazione. La verità rivelata ottiene il primato, ma questo è fondato sull’inammissibilità dogmatica della contraddizione e non sulla subalternazione della ragione alla supremazia della rivelazione; non vi è più posto per la distinzione tra ratio inferior e ratio superior, ma uno è il modo di procedere della ragione, che Sigieri, pur pensando successivamente di subordinare alla somma verità della teologia, in realtà tiene semplicemente distinto da essa.

         Tale distinzione comporta, alla luce dell’indagine esclusivamente filosofica di Sigieri, la concentrazione sulla conoscenza razionale quale forma di conoscenza accessibile in assoluto, non essendo ben precisato il valore e il contenuto di una rivelazione che appare estremamente remota, nonostante la sua supremazia.

         Invece Bacone, pur motivando parte delle proprie considerazioni con l’ausilio della filosofia, intende procedere così al rinnovamento della teologia, cercando di individuare nella prima le conferme della verità divina e dei suoi doni di sapienza; egli arriva, peraltro, a negare certe conclusioni aristoteliche sull’eternità del mondo e sulla natura dell’intelletto umano, affinché la loro conflittualità con il dettato della rivelazione non venga a minare la conformità di contenuti da lui aprioristicamente sostenuta.

         Così, pur nella similarità di distinzione tra i due tipi di teologia, Bacone e Sigieri vengono ad allontanarsi nei rispettivi esiti: in Sigieri la distinzione è funzionale all’ammissione apiretica della teologia fondata sulla Sacra Scrittura quale forma di sapienza perfetta per eccellenza, in Bacone si presenta quale integrazione necessaria tra la metafisica dei filosofi pagani e gli articoli di fede della teologia positiva cristiana; la filosofia, per il maestro francescano, perviene alla verità quale suo compito, per Sigieri la filosofia ha, piuttosto, il compito di individuare e precisare ciò che hanno pensato i filosofi e soprattutto Aristotele.

         Pur notando tali differenze, si può altresì postulare, come mostra Hackett, che Sigieri avesse meditato e accolto alcune obiezioni di Bacone sulla natura e sulla funzione dell’intelletto agente, come accolse, del resto, quelle di san Tommaso contro il monopsichismo, ma non si può affatto sostenere che Bacone fosse venuto, in qualche modo, incontro alle istanze dell’aristotelismo radicale, che minacciavano di disgregare l’unità spirituale e temporale della Chiesa. Sembra, infatti, ad Hackett che gli scritti centrali di Bacone, specialmente quelli destinati al pontefice Clemente IV, siano una risposta critica alle questioni sollevate dagli aristotelici latini sul tema della felicitas filosoficamente intesa. Sigieri, come si è già visto nel De felicitate, identifica l’intelletto agente con dio e questo fu uno dei cambiamenti più significativi apportati alla sua dottrina dopo il 1272; identificando ulteriormente la somma felicità con quella procurata dall’adesione dell’intelletto possibile all’intelletto agente, secondo il potere dell’essere umano, egli finisce di fatto con l’escludere la necessità e la garanzia della rivelazione divina.

         Bacone allontana, invece, nella sua Moralis philosophia ogni nozione di felicitas che sia esclusivamente fondata sulle capacità della ragione e sull’opera della virtù; esiste certamente una felicità che è nelle forze e nei limiti della filosofia, ma essa è infinitamente oscura e insignificante rispetto alla perfetta futura beatitudine data da Dio.

         Sigieri di Brabante propone un modello di felicità perfettamente razionale, accessibile all’uomo d’intelletto già nel corso della sua esistenza; allo stesso modo Boezio di Dacia ritiene che il filosofo sia il solo a poter essere felice e a vivere senza peccato, il solo a incarnare la virtù sulla base della pura attività poetica. Egli sostiene di esprimersi su basi meramente filosofiche, traendo analoghe conclusioni sul tema della felicità e del finis hominis, mentre Bacone, pur consentendo alla possibilità di una felicità naturale, ritiene che essa non sia il termine ultimo dell’esistenza e che di là da essa si dispieghi l’illuminazione beatificante di Dio; perciò non si può pensare a una semplice distinzione tra ragione e fede, ma a una inclusione della prima nella seconda, ove la filosofia è l’elemento esplicativo della teologia.

         L’ideale di un uomo puro e felice in questa vita, solo grazie alla sua natura, è per Bacone una chimera, tanto più se queste forze sono esclusivamente intellettuali, né volitive, né affettive. Egli è fedele in ciò all’ortodossia cristiana, cioè considera la felicità nella sua integrità: l’uomo sin dalla creazione è anima e corpo, perciò anche la sua felicità soprannaturale, completa e perfetta dovrà essere tanto dell’anima quanto del corpo.

         Questa riduzione della filosofia alla teologia non sottrae, tuttavia, Bacone alle conclusioni precedenti circa la precarietà effettiva di una concezione teologica sostenuta dalle scienze, rispetto alle quali la teologia sembra quasi ausiliaria. Infatti essa, come si vedrà in san Bonaventura, non può porsi come semplice effetto dell’attività e dei risultati delle altre scienze, ma ne deve essere la loro causa materiale, efficiente e finale e tanto più non può ammettere di derogare alle sue funzioni, seppure sul piano umano e contingente, in favore delle pretese della filosofia morale e della filosofia in generale.

 

III.2  Bonaventura, Bacone e l’aristotelismo

 

         La conflittualità tra un certo ideale filosofico, manifestamente tratto e ispirato dallo studio di Aristotele, e l’ideale della sapienza cristiana, trova effettivamente la sua fonte nei controversi rapporti interpretativi con l’opera dello Stagirita; non si potrebbero, peraltro, comprendere gli attacchi di Bonaventura a certo aristotelismo eterodosso e non, sorto in seno alla facoltà delle arti, se prima non si vedesse fino a che punto egli stesso avesse accettato l’insegnamento di Aristotele e fino a che limite questo risultasse compatibile con la fede cristiana.

         Van Steenberghen ritiene, contro i rilievi di Gilson, che Bonaventura avesse conosciuto superficialmente alcuni testi di Aristotele, quando egli era ancora studente della facoltà delle arti e forse anche successivamente, come testimonia il suo Commento alle Sentenze, composto all’inizio della sua relativamente breve carriera teologica. Non si deve inoltre trascurare che, ai tempi degli studi di Bonaventura presso la facoltà delle arti, tra il 1235 e il 1243, la conoscenza di Aristotele era limitata all’Organon e ai primi tre libri dell’Etica, nonostante che la stima del Filosofo fosse orami universale; trova così una sua spiegazione lo smarrimento descritto da Bonaventura di fronte a certi aspetti della dottrina aristotelica, supponendo che egli non conoscesse ancora, a quel tempo e non direttamente, i libri naturales:

Audivi, cum fui scholaris, de Aristotele quod posuit mundum aeternum; et cum audivi rationes et argomenta quae fiebant ad hoc, incepit concuti cor meum et incepit cogitare, quomodo potest hoc esse? Sed haec modo sunt ita manifesta, ut nullus de hoc possit dubitare[5].

         L’uso del verbo audivi conferma i primi contatti con i riferimenti fondamentali della dottrina aristotelica attraverso le lezioni dei maestri della facoltà delle arti, ma ciò non toglie che Bonaventura avesse potuto approfondire successivamente, da teologo, la conoscenza di Aristotele, ossia cercando, ove possibile, una conciliazione, ma ricusandola se questa avesse manifestamente intaccato e contraddetto il dettato della rivelazione.

         Bonaventura prese più volte posizione contro gli errori dell’aristotelismo a partire dai suoi anni d’insegnamento, dal 1248 al 1257, periodo al quale risale il suo Commento alle Sentenze; il problema della creazione e dell’origine del mondo, quello della sua eternità, la questione della natura dell’anima e della sua immortalità offrivano al maestro l’opportunità di un confronto diretto con Aristotele attraverso la sistematicità di trattazione del Commento alle Sentenze, ma in pochi casi egli polemizza esplicitamente con il Filosofo e sono assenti, soprattutto, i toni più veementi delle Collationes posteriori. Non è possibile individuare tracce di ostilità nei suoi confronti, ma piuttosto ammirazione e rispetto singolari, che indussero spesso Bonaventura, come rileva Van Steenberghen, a giustificare gli errori stessi dello Stagirita quando essi risultavano incontestabili[6].

         Bonaventura era profondamente convinto della debolezza della ragione umana affidata alle sue sole risorse, per cui non doveva suscitare in lui meraviglia che i filosofi pagani avessero errato così sovente, dal momento che essi non avevano goduto dell’illuminazione divina. Egli confessa con umiltà di non essere un grande esperto in materia di esegesi aristotelica, ma ha motivo di dubitare della sincerità e della fedeltà di certe interpretazioni, perciò ritiene lecito manifestare molte riserve nel riferire le opinioni attribuite al Filosofo. Per questo motivo Bonaventura non intende condannare senza appello la filosofia, perlomeno nel Commento alle Sentenze, ma preferisce accoglierla come ulteriore integrazione, né necessaria né sufficiente, della materia della rivelazione, se e solo se essa fosse risultata compatibile con l’insegnamento della fede.

         La filosofia è ausiliaria della teologia, sia intesa come sapere razionale anteriore alla rivelazione, sia come attività speculativa praticata dai filosofi della facoltà delle arti, seguendo i testi dei filosofi pagani e, in particolare, di Aristotele; lungi da Bonaventura sottoscrivere, quindi, la rivelazione continua sostenuta da Bacone, esistendo un preciso discrimine storico tra sapere filosofico e verità rivelata. Secondo Bonaventura i filosofi, dati i loro errori, non hanno goduto dell’illuminazione divina, mentre, secondo Bacone, l’errore non risiede nelle dottrine filosofiche, ma nella loro scorretta traduzione e interpretazione favorita dalla corruzione dei costumi; l’uno considera, perciò, l’errore come deviazione intellettuale provocata dall’assenza della fede, l’altro ritiene, invece, che matrice di ogni errore sia la corruzione della morale originaria, posseduta questa anche dai filosofi pagani.

         Tuttavia l’atteggiamento di Bonaventura nei confronti dell’aristotelismo diventa più acrimonioso nelle tre serie di Collationes, tra il 1267 e il 1273, (De decem praeceptis, De septem donis Spiritus Sancti, in Hexaëmeron), ove egli risponde alle provocazioni filosofiche degli “artisti”, discepoli cristiani dello Stagirita; ma anche qui la contestazione e la condanna si appuntano più contro coloro che si presentavano insieme come aristotelici e cristiani, che contro lo stesso Filosofo, sottolineando una prudenza d’insieme sia nella collatio VI, nn. 1-5, che nella VII, n. 2.

         Aristotele non è chiamato direttamente in causa, ma vengono coinvolti nella polemica coloro che gli attribuiscono, a torto o a ragione, certe opinioni ed errori; in questo modo Bonaventura prende le distanze dall’aristotelismo eterodosso, supponendo l’esistenza di un contrasto dottrinale tra ciò che aveva effettivamente insegnato Aristotele e ciò che sostenevano i suoi epigoni cristiani.

         Nell’opera dedicata alla teologia della storia di san Bonaventura,il giovane e non ancora cardinale Joseph Ratzinger sottolinea l’opposizione del maestro all’aristotelismo non tanto in materia metafisica o epistemologica, quanto a livello della teologia della storia[7]; non solo la sua tesi di post-dottorato riguarda appunto la teologia della storia in San Bonaventura e come egli stesso sostiene nel documento di presentazione ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze in quel periodo di studi disvelò un aspetto della teologia di Bonaventura non messo in luce nella letteratura precedente, principalmente, la sua relazione con l’idea nuova della storia concepita da Gioacchino da Fiore nel XII secolo. Come ben si ricorda Gioacchino concepiva la storia come una progressione di tre età, la prima, quella del Padre, (la più ostile per gli esseri umani sotto la costrizione della legge), la seconda , quella del Figlio, con più libertà, fratellanza e sincerità,sino alla terza e ultima età, quella dello Spirito Santo, un tempo di universale riconciliazione fra Oriente e Occidente, tra   Cristiani ed Ebrei, un tempo senza le “leggi” (in senso paolino), di reale fratellanza umana. L’idea, marcata dal giovane dottore in teologia J.Ratzinger, da lui semplicemente definita interessante, , era che una corrente consistente  dei Francescani era convinta che san Francesco  e il suo Ordine avessero segnato l’inizio del terzo periodo della storia gioachimita e la loro ambizione era di attualizzarla; al contrario Bonaventura si poneva in un critico dialogo con questa corrente.

Ritornando all’aristotelismo, da una semplice contrapposizione iniziale tra la dottrina aristotelica dell’eternità del mondo e il dogma cristiano della creazione ex nihilo, Bonaventura passa in rassegna i punti più controversi del cosiddetto aristotelismo, elencandoli sistematicamente nelle Collationes in Hexaëmeron e parlando di essi sino all’ultimo quale triplex caecitas, scilicet de aeternitate mundi, de unitate intellectus, de poena et gloria[8].

         In particolare, questi tre errori sono il frutto dell’errore primitivo dei filosofi, che consiste nel negare l’exemplaritas divina. Se il Cristo delle Collationes in Hexaëmeron è posto come il centro assoluto di tutto, segno della divina esemplarità, allora la negazione delle idee esemplari è un attacco esiziale perpetrato contro le forze del Bene, ancora più funesto perché radice di altri tre errori, ossia dell’occultamento dell’esemplarità eterna, della provvidenza divina e delle destinazioni delle realtà del mondo.

         La minaccia, tuttavia, non sembra per Bonaventura giungere da Aristotele, bensì dai suoi discepoli pseudo-cristiani; la definizione delle posizioni degli aristotelici della facoltà delle arti e dello stesso Stagirita, nonché dei loro rapporti reciproci è estremamente precisa e lo si desume dal numero e dalla qualità delle citazioni dell’Etica Nicomachea nelle Collationes in Hexaëmeron[9]. D’altra parte non si deve dimenticare che le conseguenze più perniciose delle deviazioni dell’esegesi aristotelica si riversavano nella morale, conducendo a una contrapposizione drammatica tra morale naturale e morale cristiana.

         Tuttavia occorre ricercare le fonti di una tale devianza e, secondo Bonaventura, esse risiedono nella concezione del tempo formulata da Aristotele, per quanto il Filosofo non fosse direttamente responsabile delle conclusioni tratte da essa: qui si ritorna, pertanto, al nucleo dell’antiaristotelismo di Bonaventura, individuato da Ratzinger, o, come questi precisa ulteriormente, del suo “antifilosofismo” facente capo alla teologia della storia.

         La concezione cristiana del tempo è segnata dall’unicità e dall’irripetibilità degli eventi, mentre l’antichità, attraverso pur diverse formulazioni filosofiche, concepiva il tempo attraverso la circolarità del suo movimento, ossia mediante l’eterno ritorno degli eventi medesimi, senza un discrimine netto tra il principio e la fine.

         San Bonaventura non si discosta affatto dalla cifra dell’unicità irripetibile che il cristianesimo conferisce al tempo, ma si avvicina alla concezione antica per la rappresentazione geometrica che ritiene più appropriata ad esso: il cerchio. Egli ritiene, perciò, che la formulazione aristotelica del tempo sia, in un certo qual senso, lineare, infinita e casuale, in contrasto assoluto con la concezione cristiana, da lui stesso riformulata, segnata dal duplice e concorde movimento di egressus, da Dio a Cristo, e di regressus, da Cristo a Dio.

         Non deve, peraltro, stupire che la rappresentazione simbolica di Bonaventura sia di segno opposto rispetto a quella tradizionale cristiana e coincida formalmente con la concezione pagana del tempo, infatti, come sottolinea Ratzinger,

la differenza vera e oggettiva viene esattamente mantenuta nel momento in cui al tempo concepito cristianamente viene attribuito il segno distintivo dell’unicità, mentre alla concezione pagana del tempo il segno distintivo dell’infinitezza senza ordine[10].

         Tale simbolismo viene confermato nel De reductione artium ad thelogiam: Et ideo ibi completus est circulus, completus est senarius, et propterea status[11], cioè è in Dio che il cerchio si chiude, che il numero sei trova il proprio compimento e la propria quiete, ed è a Dio che ogni illuminazione deve essere ricondotta, dopo aver tratto da lui origine.

         In questo senso si comprende la centralità assoluta assolta dalla figura di Cristo nelle Collationes in Hexaëmeron. Con la sua opera di redenzione, quindi attraverso la croce, egli ha ricostituito il centro irradiante del cerchio mondano, oscurato dalla caduta, conferendo di nuovo senso sia all’esistenza individuale sia all’intera vicenda cosmica.

         Quando nel capitolo precedente si è abbozzata una definizione della teologia della storia in Bonaventura, sottolineando la diversità di vedute rispetto a Bacone in relazione al ruolo del francescanesimo, si è parlato di uno svolgimento che prevede salti “non senza ritorno”; in realtà il “salto” non è altro che l’ascesa di un movimento che, pur rimanendo uniforme nella sua circolarità, contempla una progressione di livelli, superiori l’uno all’altro, ove in ciascuno di essi si riproduce la norma strutturale del livello precedente. Il “ritorno” non deve essere affatto confuso con la teoria dell’eterno ritorno, formulata da filosofi pagani e ripresa anche da Sigieri, dottrina che Bonaventura demonizza quale prefigurazione della “bestia” dell’Apocalisse, esso prevede piuttosto il compimento su un piano ulteriore di ciò che la storia ha già suggerito; è, pertanto, un reditus non necessitato, che si attaglia perfettamente alla configurazione di unicità e irripetibilità degli eventi formulata da Bonaventura, ossia alla riproduzione della medesima legge temporale.

         Per quanto Sigieri avesse limitato, sulla base del necessitarismo astrologico, l’eterno ritorno alle sole specie e non agli individui, che sono accidentali e contingenti, è evidente che proprio di qui sarebbe partito il secondo attacco bonaventuriano all’aristotelismo o, per meglio dire, a quegli errori di natura filosofica, giustificati sulla scorta dell’auctoritas dello Stagirita.

         La prima conflittualità concerneva oggettivamente la teoria del mondo eterno, la seconda, pur muovendo in parte dalla precedente, fu motivata storicamente dall’insorgenza dell’averroismo latino; Ratzinger definisce questa seconda linea di opposizione come “profetico-escatologica”, ossia l’aristotelismo diventa ivi la controparte diabolica della rigenerazione e della risalita incarnate da Cristo, prima, e dallo stesso san Francesco, poi.

         La circolarità temporale di Bonaventura, nella sua distinzione di egressus e regressus, prevede il superamento della contingenza nel regno di Dio, anche se già su questa terra è possibile recuperare l’immagine perduta della pace eterna. Lo stesso francescanesimo non può e non deve sottrarsi alla legge provvidenziale del continuo e costante approssimarsi a Dio, per cui la semplice divisione tra simplices e docti appare non definitiva in virtù di questo: nella Chiesa degli ultimi tempi si realizzerà la vita evangelica preconizzata e praticata da Francesco, ove l’amore per Dio avrà più valore della conoscenza razionale. Viene così profetizzata da Bonaventura la fine di ogni teologia razionale, ispirata dal gioachimismo; nella collatio XVII dell’ Hexaëmeron egli annuncia, alla luce della Scrittura, che non vi sarà più difesa per mezzo della ragione, ma solo per mezzo dell’autorità, per questo il Salvatore non volle difendersi con la prima, allorché fu tentato, ma con l’autorità della parola di Dio[12].

         Non ci sarà, pertanto, più alleanza, per quanto strumentale, tra ragione e fede, essendo stabilito non solo il valore provvisorio dell’autonomia filosofica, ma anche della speculazione raziocinante integrata nella teologia positiva.

         Pertanto Bonaventura condanna di rimando quella santa alleanza tra scienza e fede, che Bacone aveva, invece, sancito quale strumento di salvezza spirituale e temporale della cristianità, affinché si realizzassero pienamente i contenuti della rivelazione originaria concessa ai patriarchi, ai profeti e ai filosofi.

         Se il francescanesimo di Bonaventura guarda al simplex come all’ideale di colui che professa l’amore per Dio senza comprenderne i termini razionali, ormai non più necessari, e pone in questo ideale la meta dei tempi ultimi, invece Bacone prevede che il cambiamento da doctus a simplex debba avvenire immediatamente, in questo tempo, una volta rimossi il falso sapere e l’abito della vana superbia, seguendo così l’esempio dei molti filosofi pagani che pur non avevano conosciuto la verità cristiana. Tale mutamento è, per Bacone, definitivo e non prevede tanto la piena realizzazione dell’amore e della carità evangeliche professate da san Francesco in termini mistico-estatici, quanto una loro trasposizione e adattamento alla vita del doctus, che non deve per questi rinunciare alla scienza e alla filosofia; semmai Bacone e Bonaventura possono trovarsi in sintonia su un antiscolasticismo di fondo, motivato dal peculiare ideale di sapienza francescano, ma non sulle soluzioni per combatterlo e rimuoverlo.

         Il primo propone una conversione del sapere attuale in nuove forme, non meno razionali, il secondo riconosce semplicemente la provvisorietà e il valore strumentale della teologia dialettica ed è certo che la storia, prima o poi, confermerà la fine di essa, già sancita ab origine da Dio.

         La continuità baconiana tra filosofia e teologia, tra tempo della ragione e tempo della rivelazione, fa sì che Cristo non sia affatto il medium della storia, come in Bonaventura, né che sia altrettanto chiaro il duplice movimento di egressus e regressus, mancando in Bacone uno sviluppo propriamente mistico, e forse anche escatologico, che illustri il reditus in Deum.

         Sono così di segno opposto le opinioni tratte da entrambi sull’aristotelismo e sul significato della sua proliferazione: Bacone ritiene possibile recuperare, alla luce di una continuità aprioristica, il vero Aristotele, non quello dei falsi discepoli, ma quello che riuscì ad antivedere, secondo il mito, la verità cristiana. Bonaventura, pur mostrando riserve sulla sincerità dell’aristotelismo degli “artisti” di Parigi, ne condanna in blocco gli errori quali prove della corruzione procurata in assoluto dalla filosofia, quale che essa sia, allorché essa tenti di procedere indipendentemente dalla teologia positiva; poste tali premesse, l’aristotelismo non può essere, come invece per Bacone, la filosofia dell’avvenire proprio perché si qualifica primariamente ed essenzialmente come sapere filosofico. A questo punto si impone, quindi, la questione del valore di verità, che Bonaventura attribuisce rispettivamente alla ragione e alla fede secondo l’attività dell’anima.

 

III.3  Verità secondo ragione e verità secondo fede

 

         La circolarità bonaventuriana della storia non è “senza soluzione di continuità con l’origine”, come in Bacone, ma è segnata dalla presenza di Cristo, ossia da un discrimine nel dispiegamento stesso della verità, l’una filosofica e costellata di errori, l’altra teologica e fondata sulla fede, la sola che consenta di dividere la luce dalle tenebre, secondo le parole di Gioacchino da Fiore[13].

         Come si è visto, l’atteggiamento dei due maestri francescani nei confronti dell’aristotelismo consente di individuare le reciproche differenze dottrinali proprio nel campo della teologia della storia e nella considerazione stessa delle finalità della scienza teologica, mentre rimangono pressoché fissi i cardini del pensiero metafisico ed epistemologico, soprattutto in relazione alla dottrina dell’illuminazione divina dell’intelletto di agostiniana memoria.

         In questo modo non si intende, tuttavia, ridurre il conflitto a un semplice dissenso in materia di legittimazione di auctoritates filosofiche, ma si vuole sottolineare un radicale contrasto nella considerazione della filosofia, allora identificata tout court, nel bene e nel male, nell’aristotelismo. Per Bonaventura i filosofi non hanno ricevuto la fede, essi hanno dunque errato non solo nelle loro conclusioni metafisiche, ma anche nell’orientamento stesso delle loro ricerche; opposte sono le conclusioni di Bacone: i filosofi hanno, in qualche modo goduto dell’illuminazione divina, sia a sostegno delle loro ricerche, sia dei loro stessi esiti, per cui l’errore non sta a monte, ossia nella filosofia, ma nell’interpretazione e nell’uso presente di essa. Ciò non toglie che Bonaventura, da teologo, possa aver fatto appello a tutte le risorse della dialettica per dispiegare la sapienza cristiana e per illustrarne i contenuti, ma guida di tale itinerario è la luce della fede e l’intelletto sarà, pertanto, fidelis.

         L’unità della sapienza cristiana è, quindi, fondata sull’unicità assoluta della sua fonte e del suo fine, ossia Dio, e garantita dalla sintesi della Scrittura; la differenza dottrinale tra Bonaventura e Bacone non risiede tanto nella considerazione del primato anomalo della filosofia morale da parte del secondo, primato peraltro subordinato alla maestà della teologia, ma nel valore che ciascuno di essi attribuisce alla teologia. L’insegnamento della Scrittura non è infatti fondato sulla semplice esegesi, secondo Bonaventura, ma su una teologia biblica coadiuvata dalla lettura commentata del Liber Sententiarum di Pietro Lombardo, metodo che Bacone deprecava a partire dall’opera teologica di Alessandro di Hales.

         Come sostiene Chenu, “Bonaventura sposta, anche materialmente l’asse del lavoro teologico: non è più la scriptura sacra a fornire direttamente la materia, ma il libro delle Sentenze”[14], mettendo così in evidenza i procedimenti intellettuali atti a spiegare e a individuare e, non semplicemente, a rivelare, a pregare e a esortare, come si faceva tradizionalmente seguendo la sacra pagina. Pur postulando che ogni conoscenza ha il suo fondamento e, perciò, la conferma della sua sussistenza nella Scrittura, Bonaventura ritiene che il soggetto della teologia sia il credibile che passa al livello di intelligibile e che la scienza teologica, o teologia propriamente detta, debba considerare la potenzialità dell’insegnamento della rivelazione nel giustificare razionalmente sé medesimo e la fede:

Credibili enim, secundun quod habet in se rationem primae veritatis, cui fides assentit propter se et super omnia, pertinet ad habitum fidei; secundum quod super rationem veritatis addit rationem auctoritatis, pertinet ad doctrinam sacrea scripturae … sed secundum quod supra rationem veritatis et auctoritatis addit rationem probabilitatis, pertinet ad considerationem praesentis libri, in quo ponuntur rationes probantes fidem nostram[15].

         E’ pertanto evidente in che cosa siano differenti la fede riguardo il credibile, i libri del canone della Scrittura e il Liber Sententiarum di Pietro Lombardo, con i posteriori commenti, tra i quali quello dello stesso Bonaventura.

         Se si parla della linea in quanto linea retta, i suoi principi rimangono quelli della geometria; se, invece, si tratta della linea di un raggio visivo, essa viene sottomessa a principi differenti da quelli della geometria, ossia quelli dell’ottica, dove la determinatio distrahens operata subalterna l’ottica alla geometria. Analogamente il cosiddetto “credibile in quanto intelligibile” passa sotto i principi della ragione e si riferisce alla sacra pagina solo grazie al procedimento della subalternazione, cioè non fa parte della Scrittura in virtù di quella stessa determinatio distrahens che lo pone sotto i procedimenti razionali.

         Sempre seguendo le riflessioni di Chenu in merito alla bonaventuriana intelligenza della fede, “altro sarà dunque il metodo del credente, altro quello dell’esegeta, ancora diverso quello del teologo”[16].

         E’ significativo che Bonaventura ponga l’accento su questa differenza metodologica, per cui tale rilievo, alla luce della profezia della fine della teologia razionale, indica piuttosto la provvisorietà strumentale dei principi e delle considerazioni epistemologiche che propongono un sapere razionale e un sistema di commento, che funge da intelligenza del dato rivelato. Per tale subalternazione il valore, ossia la certezza di questo sapere è inferiore alla certezza donata dalla fede e dalla pura illuminazione, ma l’uno non è estrinseco all’altra, giacché la certitudinalis cognitio promana, secondo Bonaventura, dalle stesse idee divine, benché rimanga non piena per l’uomo.

         L’immutabilità dell’oggetto d’intellezione e l’infallibilità del soggetto intelligente garantiscono la certezza assoluta della conoscenza; se l’uomo possiede nozioni relativamente sicure è perché egli gode dell’illuminazione regulans et motiva delle idee divine, sia nella conoscenza della realtà creata sia di quella incerata e superna. L’intelletto umano conosce con certezza relativa, approssimandosi alla verità, non in virtù dell’infallibilità di sé medesimo, né per l’immutabilità degli oggetti di conoscenza, bensì perché le Idee, non distinte dall’essenza divina, garantiscono naturalmente la conformità alla verità.

         Tali Idee o rationes aeternae sono, pertanto, regola di verità, giacché l’intelletto umano non può non agire sottomettendosi ai principi innati suggeriti da esse. Se questi principi posti da Dio sono garanzia e fonte di verità, ciò non significa, tuttavia, che si possa aderire compiutamente e perfettamente alle ragioni eterne, cioè che l’anima umana possa penetrare nelle tenebre della verità divina seguendo la via della mera conoscenza razionale. Secondo Bonaventura la certitudinali cognitio è, quindi, possibile, ma di per sé non è affatto completa; come in lui la ratio inferior agostiniana, rivolta alle cose sensibili, fa appello all’astrazione aristotelica per apprenderle, così la ratio superior integra la precedente e chiude il circolo imperfetto dell’attività intellettiva, allorché l’anima si rivolge verso sé medesima e verso Dio, pur non esaurendo la conoscenza della verità.

         Dal momento che l’attività dell’intelletto, anche dietro la guida dell’illuminazione divina, non esprime mai una conoscenza piena e assoluta, qualsiasi esito di cognizione razionale non è minimamente paragonabile nei suoi effetti veritativi alla mente divina che considera sé medesima. Il sapere razionale è, così subalternato alla Scrittura, come lo è il Liber Sententiarum di Pietro Lombardo, esso è inoltre provvisoriamente necessario ai fini della comprensione della rivelazione. La conoscenza presenta, quindi, un duplice aspetto, l’uno rivolto all’apprensione delle cose sensibili, l’altro a quella delle cose superne; pur in questa seconda prospettiva, essa è radicalmente imperfetta, nonostante che sia certa grazie all’illuminazione, dal momento che è distinta e posteriore alla verità trascendente se stessa, raggiunta dall’uomo grazie alla fede e all’amore di Dio.

         La radicale imperfezione della conoscenza, pur non togliendo nulla alla certitudinalis cognitio e alla ratio superior illuminata, attesta ulteriormente la subalternazione di ogni sapere razionale alla Scrittura e, soprattutto, alla fede. Si spiega, altresì, il dualismo di fede e ragione, di teologia e di filosofia proprio nel valore veritativo assegnato a ciascuno dei termini del binomio. La teologia razionale è provvisoria, poiché si avvale di una conoscenza speculativa radicalmente imperfetta e perché la stessa illuminazione non consente di penetrare nelle ragioni eterne in forza dei limiti stessi dell’intelletto umano.

         La fede è, invece, costituzionalmente priva di errore, pur oscuramente, perché non presuppone la conoscenza razionale; solo impropriamente si sostiene che essa dà conoscenza, mentre dona qualcosa di più, ossia certezza e verità, non inferite da operazioni e da procedimenti dimostrativi, dal momento che assente per sé e sopra tutto alla prima verità.

         La certezza della conoscenza razionale è relativa, ma la teologia si avvale del procedimento dimostrativo quando si deve avanzare nell’intelligenza del dato rivelato. L’esperienza dimostra, pertanto, che si deve partire dalla ragione, ma che essa non dà garanzie sufficienti nell’accertamento della verità; l’intellezione promana dalla fede e non la fede dall’intellezione, nisi credideritis, non intelligetis, e ciò finisce col giustificare la condanna di ogni autonomia filosofica e la provvisorietà storica e veritativa di una teologia sostenuta da una speculazione razionale, che tenta di avvicinare l’intelligibilità di Dio all’uomo, ma non certo l’anima dell’uomo a Dio.

         L’itinerario mentis in Deum è quello dell’anima nella sua integrità e nel concorso inscindibile di ragione e volontà; esso ha quale meta Dio nella luce oscura della sua infinita essenza, ove la certezza della sua verità è conferita dall’evidenza dell’adesione affettiva e intellettiva e non da una semplice conoscenza razionale che implica la distanza dall’oggetto d’intellezione. La definizione di origine anselmiana della verità, veritas est rectitudo sola mente perceptibilis[17], doveva apparire a Bonaventura più pregnante di quella aristotelica, giacché sottolineava non solo il rapporto del pensiero alle cose così come effettivamente sono, ma anche la tensione e la conformità delle cose stesse e dell’azione umana nella sua globalità a un paradigma ideale.

         La verità non individua semplicemente la res nel suo essere intelligibile, ma anche il suo dover essere, da cui promana la rectitudo della medesima; essa non manifesta solo un giudizio adeguato alla realtà delle cose, come in Aristotele, ma è anche e soprattutto teofania, ossia manifestazione dell’Essere divino che è principio e condizione di ogni verità.

         La distinzione tra verità delle cose e verità della conoscenza, le quali Bonaventura riprese rispettivamente da Agostino e da Aristotele, si esprime mediante la definizione tecnica di verum incomplexum e di verum complexum. Il primo viene enunciato per mezzo dei termini semplici della proposizione, per cui, quando si sostiene che un ente reale è vero per modum incomplexionis, si intende affermare che esso è intelligibile per Dio e non per l’uomo, che invece conosce per modum complexionis.

         Il verum incomplexum è la verità della cosa, così come essa è conosciuta da Dio, per cui Egli è causa esemplare di tutta la realtà; il verum complexum fa, invece, capo alla conoscenza umana ed è l’oggetto sia della fede sia della conoscenza scientifica[18].

         Interessa, soprattutto, notare come nemmeno la fede, dono sublimante dell’illuminazione divina e grazia superiore, consenta all’uomo e alla sua mens di travalicare i limiti della conoscenza del vero per modum complexionis. Il vero assolutamente semplice è oggetto della conoscenza divina e anche quando l’oggetto di quella umana è di per sé assolutamente semplice, quale è Dio, l’uomo non può fare a meno di tradurre tale conoscenza secondo la natura del suo intelletto, che, in quanto creata, è composta[19].

         Sotto il profilo del verum complexum fede e conoscenza razionale sono complementari e limitati secondo la natura dell’intelletto umano, perché è identicamente composto e limitato il soggetto che perviene alla conoscenza o l’accoglie secondo la fede.

         Il senso coglie l’oggetto nella sua semplicità, l’intelletto nella composizione di soggetto e predicato, quindi due sono le facoltà conoscitiva fondamentali, complementari l’una all’altra, ma egualmente limitate anche nel loro concorso. Per questo motivo la frazione di verità, accessibile all’uomo nel suo percorso mondano, è estremamente limitata rispetto alla verità presa nella sua totalità; solo così si evita di confondere la verità accessibile con la ragione con la verità in assoluto. La stessa fede, pur attraverso il dono della rivelazione, non garantisce il pieno possesso della verità, quale essa è incompleta in Dio, ma la rende presente all’uomo nel suo valore normativo e nella necessità inconfutabile del suo concorso con la ragione, pur superando questa.

         Se la teologia ha, pertanto, per oggetto la verità nella sua causalità esemplare e finale in Dio e se tale verità è normativa, allora la teologia è fondamentalmente teologia della salvezza quale reductio in Deum dell’essere in generale e dell’essere umano in particolare. Così la metafisica sfocia nella teologia e la teologia sfocia nella mistica, manifestando, in quest’ultimo senso, l’intimo connubio con una morale, che non si afferma tanto nelle azioni particolari e contingenti, quanto nella destinazione ultima dell’anima umana nella beatitudo e nella deificatio.

         La composizione ilemorfica dell’anima assicura la sua piena sussistenza, separatamente dal corpo, per cui non vi può essere adesione affettiva e amore di Dio senza che l’anima non percorra un itinerario di purificazione e di piena realizzazione di sé, travalicando i limiti della conoscenza naturale e della prima illuminazione gratifica fino al desiderio e alla tenebra di Dio, ove la teologia è negativa e dionisiaca.

         La conoscenza non è, pertanto, un valore assoluto per Bonaventura e tantomeno lo è la ragione: fonte e principio di ogni verità è Dio, la cui essenza è così impermeabile a ogni definizione da trascendere la verità medesima, poiché è Dio a porre la verità e non la verità a porre Dio.

         La fede è, quindi, un dono particolare di Dio all’uomo, che consiste nella possibilità di partecipare all’esperienza della mente divina, fonte di verità, nell’attesa che l’uomo partecipi integralmente della beatitudo futura.

 

III.4  La filosofia quale luce interiore nella sintesi teologica di san Bonaventura

 

         L’incontro tra il pensiero cristiano e l’aristotelismo era stato alquanto disorientante, perché aveva dimostrato, per la prima volta, l’esistenza di un attrito tra tradizione religiosa e tradizione filosofica, eterogenee l’una all’altra nelle loro origini. Come sottolinea Gilson,

l’incontro della fede cristiana col platonismo dei miti e dei misteri fu anzitutto quello di due pensieri religiosi … l’incontro, invece, tra il pensiero cristiano e l’aristotelismo sarà più schiettamente quello di una vera e propria religione con una vera e propria filosofia[20].

         Al margine di questo rilievo si pone, quindi, la più complessa questione teoretica della filosofia cristiana, cioè se sia possibile formulare un discorso filosofico che sia di fatto cristiano. Gilson nega, secondo Bettoni, commentando criticamente la posizione del primo, rileva che un’affermazione del genere verrebbe a coinvolgere negativamente la filosoficità stessa del discorso di Gilson; la negazione di una filosofia cristiana verrebbe, infatti, a inficiare la validità di ogni discorso filosofico formulato da cristiano[21].

         La questione non ha, pertanto, una soluzione teoretica pura, ma può essere ulteriormente elaborata sulla scorta del controverso rapporto tra filosofia e teologia, dopo che siano state opportunamente distinte le loro reciproche competenze, come già avevano fatto autori medievali soprattutto nel corso del XIII e XIV secolo. Nel caso di Bonaventura la questione presenta un ulteriore sviluppo, se si intendono seguire le ascendenze dottrinali del suo pensiero e se si vuole interpretarle alla luce di una maggiore o minore influenza di ciascuna di esse nell’elaborazione della sua sintesi teologica. In particolare tali ascendenze dottrinali fanno principalmente capo al confuso aristotelismo e al non meno confuso agostinismo imperante nelle scuole teologiche di allora, soprattutto in quella francescana, tradotti in un rapporto dialettico che doveva condizionare l’interpretazione posteriore della sintesi bonaventuriana.

         Secondo Gilson, Bonaventura conobbe tanto Aristotele quanto Agostino, ma sarebbe stato il suo agostinismo, e non la sua “ignoranza” di Aristotele, come altri avevano postulato, a determinare il suo antiaristotelismo dichiarato; se non altro una posizione del genere aveva il merito principale di opporsi con forza alle ragioni che dichiaravano l’ignoranza bonaventuriana di Aristotele e traevano da questa lacuna dottrinale il suo conseguente antiaristotelismo, facendo di Bonaventura una sorta di campione della teologia positiva tradizionale.

         All’iconografia agostiniana di Bonaventura si contrappone quella aristotelica agostinizzante formulata da Van Steenberghen; lo studioso di Lovanio ritiene che Bonaventura rimanga entro i limiti di uno sviluppo dottrinale già consolidato e in certo senso istituzionale, cioè entro un aristotelismo eclettico, neoplatonizzante e agostinizzante. Il suo agostinismo è, piuttosto, un neoagostinismo, cui egli diede impulso, ma che non sistematizzò, non essendo ancora maturi i tempi di una consapevole elaborazione dottrinale.

         L’aristotelismo eclettico, sviluppato in Occidente grazie ai testi e alle traduzioni di opere falsamente attribuite allo Stagirita, aveva finito, secondo Van Steenberghen, col dare vigore a un agostinismo già serpeggiante, traducendolo in nuove forme grazie ad apporti eterogenei (da cui la definizione di “neoagostinismo). L’agostinismo di Bonaventura diventa, pertanto, la cifra di un’opposizione veemente all’aristotelismo radicale della facoltà delle arti di Parigi, come unico sistema teologico, fondato sul creazionismo, in grado di contrastare una ragione e uno spirito filosofico che postulavano l’eternità del mondo; lo “spirito agostiniano” non è, quindi, altro che un esito storico e dottrinale dello “spirito cristiano”, in generale, il quale non poteva concepire se non unitariamente la sapienza cristiana. Perciò il problema del rapporto tra agostinismo e aristotelismo deve essere inserito nel contesto della dialettica filosofica-teologia e, ancora più universalmente, nella questione della sapienza cristiana e, quindi, di una determinata rappresentazione della teologia. Se Bonaventura non fosse stato intimamente persuaso dell’unità non ancora raggiunta della sapienza cristiana, egli non avrebbe visto nell’aristotelismo radicale il segnale più pericoloso di una filosofia che avanzava minacciose ed esiziali pretese di autonomia[22].

         Si nota, perciò, la diversità delle risposte formulate rispettivamente da Bonaventura e da Bacone a fronte di un identico problema, l’unità della sapienza cristiana. La considerazione della teologia investe, pertanto, la primaria concezione della sua unità, ma differiscono, se non sono addirittura contrastanti, i modi che consentono di realizzarla. Per questo motivo il contrasto tra Bonaventura e Bacone si afferma primariamente in seno alla teologia della storia, proponendo il primo una teologia della salvezza che sfocia nell’estasi mistica della beatitudo soprannaturale, mentre il secondo intende calare la teologia nella prassi della salvezza, hic et nunc, dell’intera cristianità e, possibilmente, anche di una porzione di eretici e di infedeli.

         Si ha la possibilità di precisare ulteriormente il senso di queste affermazioni, approfondendo il discorso sulla filosofia bonaventuriana e sull’esito del rapporto fede-ragione da lui formulato. Secondo Bonaventura la proprietà essenziale della ragione di cogliere il vero, per cui en set verum devono coincidere, si realizza diversamente negli esseri che la possiedono.

         L’intelletto umano, pertanto, non può cogliere l’essere nella sua intelligibilità allo stesso modo in cui lo colgono le intelligenze separate o la stessa mente divina; perciò non ha senso distinguere nell’intelletto umano tra ciò che la ragione conosce di diritto e ciò che essa conosce di fatto, dal momento che la constatazione che la natura umana è corrotta dal peccato originale impedisce di porre il problema dal punto di vista astratto. Se san Tommaso ha presentato il rapporto ragione-fede sotto un profilo astratto, invece san Bonaventura ha evitato di parlare della ragione umana come della ragione in assoluto, non postulando affatto che essa, se non fosse avvenuto il peccato originale, avrebbe potuto risolvere, mediante la sola via astrattiva e deduttiva, tutte le questioni circa la creazione, sino a quella della sua causa e del suo fine ultimo[23].

         Bonaventura, al contrario di Bacone, non annulla il discrimine tra ragione e rivelazione e non postula l’esistenza di una sorta di “età dell’oro della ragione”, ove era possibile penetrare in tutti i segreti dell’arte e della natura, ma ove non era più chiaro dove finisse la ricerca filosofica e si affermasse, altresì, la rivelazione.

         Nel Breviloquium, Bonaventura, richiamandosi ad Ugo di San Vittore, sostiene che l’uomo ricevette tre occhi: l’occhio del corpo, per vedere il mondo e le realtà create, l’occhio della ragione, per vedere l’anima e le realtà dell’anima e infine l’occhio della contemplazione, per vedere Dio e le realtà che sono in Lui[24]. Tale divisione anticipa quella più articolata del De reductione artium ad theologiam, ove Bonaventura parla di luce esterna, inferiore, interiore e superiore, e le quattro claritates o scientiae delle Collationes de septem Donis Spiritus Sancti, rispettivamente corrispondenti alla filosofia, alla scienza teologia, alla scienza dei Santi e alla scienza gloriosa[25]. Tuttavia l’occhio della contemplazione non compie perfettamente l’atto che gli è proprio se non per mezzo della gloria, quindi della visione beatifica, che ha perduto a causa della caduta e riacquista, tuttavia, attraverso la grazia, la fede e la conoscenza della Scrittura, che purificano, illuminano e rendono potente l’anima umana. Non si può giungere a quest’ultima tappa dell’itinerarium, se l’uomo non riconosce prima il suo stato di caduta e la possibilità di riscattarsi con il merito, la conoscenza e la grazia, rimediando agli errori particolari in cui egli incorre nella contingenza storica. Se non vi è riconoscimento teoretico dei limiti della ragione a causa del peccato, allora non vi può essere riscatto degli errori particolari. Bacone, al contrario, pone quattro cause di errore, di matrice eminentemente morale, e illustra un progetto di riforma che parte dall’eliminazione degli offendicela sapientiae: eliminati questi è come se fosse eliminato ogni impedimento frapposto dal peccato originale alla conquista della sapienza-salvezza.

         Per Bonaventura esistono apoditticamente due fonti di verità accessibili all’uomo, la ragione e la fede, e per quanto l’intelletto umano sia, per sua natura, chiamato a conoscere la verità, di fatto esso ha bisogno dell’illuminazione della fede e perviene di claritas in claritas alla verità eterna.

         Nelle Collationes in Hexaëmeron Bonaventura tratta di sette visiones o illuminationes, rendendo ulteriormente complessa la distinzione già presentata nelle Collationes de septem Donis Spiritus Sancti. I sei modi di visione sono quelli dell’intelligenza naturale o filosofia, della fede, della Scrittura o teologia, della contemplazione, della profezia e del rapimento estatico, ai quali si aggiunge il settimo, ossia quello dell’anima glorificata[26].

         Da questa suddivisione emerge chiaramente che la filosofia, esplicazione dell’attività dell’intelligenza naturale, rappresenta il gradino più basso delle visioni possibili, seguita dalla fede, ma risulta altrettanto manifesto che quest’ultima, di per sé non esaurisce il viaggio verso il divino, ma ne è una delle tappe, come si è già anticipato nel paragrafo precedente. Così Bonaventura sostiene più avanti, nella stessa terza collatio dell’Hexaëmeron, che sine isto lumine indito, ossia la ragione, nihil habet homo, nec fidem nec gratiam nec lumen sapientiae; et ideo divisa est etiam lux a tenebris[27]. Pertanto, pur ammettendo che il cammino del riconoscimento della verità deve partire di necessità dalla ragione, non si può fare a meno di superare la medesima quando si raggiungono le soglie di ciò che è inspiegabile, a meno che non si voglia far proliferare l’errore.

         Seguendo la quarta conferenza del De septem Donis Spiritus Sancti, si vede che Bonaventura pone la scienza filosofica come conoscenza certa della verità in quanto indagabile, mentre pone la scienza teologica, relativa alla Scrittura, quale veritatis ut credibilis notizia pia, cioè quale pia conoscenza della verità in quanto credibile[28]. Più avanti egli aggiunge,

Qui confidit in scientia philosophica et appretiatur se propter hoc et credit, se esse meliorem, stultus cactus est, scilicet quando per istam scientiam sine ulteriori lumine credit, se apprehendere Creatorem; sicut si homo per candelas vellet videre caelum vel corpus solare … Philosophica scientia via est ad alias scientias; sed qui ibi vult stare cadit in tenebras[29].

         La fede è momento successivo alla riflessione razionale, cioè se non vi fosse il lume primario della conoscenza connaturale, non vi sarebbero le visioni successive che propongono un salto qualitativo. Quando si sostiene, perciò, interpretando Isaia, nisi credideritis non intelligentis, si intende fare riferimento a quella particolare e superiore intelligenza della realtà creata e del dato rivelato che presuppone la fede, dal momento che la ragione da sola, posta di fronte a certi interrogativi, si ferma sempre alle soglie del mistero.

         D’altra parte è vero che la ragione può costituire per molti un assoluto, se si presume che essa è l’unica fonte di conoscenza, mentre, senza il concorso di altre claritates che, tuttavia, la presuppongono, è esclusivamente fonte di errore e di tenebra, una volta lasciata sola.

         La considerazione della ratio è, pertanto, differente nell’opera di Bonaventura e in quella di Bacone, perché sono contrastanti le funzioni da loro demandate alla sapienza cristiana. Entrambi convengono sulla precarietà di una sapienza, la cui unità non è ancora pienamente esplicitata, tanto più che i segnali di imminente dissoluzione vengono da entrambi messi in assoluto rilievo. In quanto francescani essi non potevano non cogliere in certi avvenimenti una conferma delle ansie millenaristiche, cui l’ordine era particolarmente sensibile a quel tempo, ma proprio su questo punto erano affiorate due rappresentazioni radicalmente contrastanti del destino dei frati minori nella vita della Chiesa e nella storia in generale. Forse non è il caso di accentuare un bipolarismo del genere, attribuendo a Bacone maggiore influenza di quanto egli ebbe in realtà in seno all’ordine, ma è indubbio che egli fu, se non la causa, almeno il testimone di un diverso modo di concepire la fedeltà ad esso; tuttavia egli si era mantenuto lontano dalle prese di posizione più estreme degli spirituali, ostili allo spirito di dottrina che si era insinuato nelle fila dei minori, contravvenendo così alla povertà evangelica della regola originaria[30].

         In realtà Bacone fu il segnale di un fermento spirituale che alimentava la vitalità dottrinale dell’ordine, nonostante alcune forme di repressione e di censura, a quel tempo comuni; così egli non fu il solo a patire le conseguenze delle disposizioni narbonesi, nonché la presunta prigionia degli anni successivi, sofferta, secondo le cronache posteriori, da altri numerosi confratelli. Piuttosto si vede come diverse individualità, partendo da una fede comune, furono indotte ad accogliere, con maggiore o minore coinvolgimento, una ratio filosofica, che si presentava, nei fatti, in modo apiretico rispetto alla prima. La questione, a nostro avviso, riguarda, ancora più a monte, i modi di realizzazione storica delle fede e la sua conversione a fini che non siano esclusivamente teoretici; proprio di qui emerge più distintamente il valore che si deve attribuire alla teologia rispetto alle altre scienze fino alla costituzione di una unitaria sapienza cristiana.

 

 

III.5  “Reductio artium ad theologiam” e “reductio theologiae ad artes”

 

         Non si deve trascurare che l’opposizione di Bonaventura al metodo razionalistico e alle devianze da esso procurate, soprattutto in seno alla facoltà delle arti di Parigi, segna una vistosa presa di posizione contro una rappresentazione paganeggiante del mondo; non si tratta, pertanto, di un dibattito esclusivamente dottrinale, ma di una ben più remota tensione acutizzatasi nello “spirito cristiano” dopo la grande riscoperta di Aristotele.

         Gli aristotelici eterodossi, procedendo filosoficamente, erano arrivati a conclusioni estreme riguardo il rapporto realtà-conoscenza, affermando che la ratio filosofica, per via inferenziale, poteva pervenire a conclusioni contraddittorie rispetto alla rivelazione.

         Di fatto si sostiene che la conoscenza razionale è in grado di generare una rappresentazione del mondo non corrispondente alla realtà suggerita dalla fede e dalla rivelazione, che dogmaticamente si propone come vera e assoluta. Così si presentano due ordini di conoscenza differenti e due rappresentazioni della realtà eterogenee l’una all’altra, che danno luogo a una contrapposizione radicale tra la visione cristiana e la visione pagana del mondo, sulla quale si appunta la critica di Bonaventura.

         Egli, in qualità di ministro generale dei frati minori e di maestro di teologia, non poteva trascurare che una puntuale analisi degli errori dell’aristotelismo, a partire dalla negazione delle idee esemplari in Dio, avrebbe condotto, senza compromessi di sorta, a una serrata contestazione della rappresentazione filosofica dell’intera realtà. Ciò che Bonaventura sembra rimproverare maggiormente ai suoi avversari, sia ai cosiddetti averroisti sia a taluni membri del suo ordine come Bacone, è proprio la caduta nel compromesso: un compromesso che fa ambiguamente sostenere ai primi la supremazia del dato rivelato sulle opposte conclusioni della ragione, mentre al secondo suggerisce l’integrazione di tutti i contenuti della ratio filosofica nella fede, pur nell’ottima intenzione di salvare e ricostituire l’unità della sapienza originaria nel cristianesimo.

Has novem scientias dederunt philosophie et illustrati sunt. Deus enime illis revelavit [Rom. 1, 191]. Postmodum voluerunt ad sapientiam pervenire, et veritas trahebat eos; et promiserunt dare sapientiam, hoc est intellectum adeptum; promiserunt, inquam, discipulis suis[31].

         Più avanti, sempre nelle Collationes in Hexaëmeron, Bonaventura continua,

5. Hi ergo ceciderunt in errores nec fuerunt divisi a tenebris et isti sunt pessimi errores. Nec adhuc clausi sunt clave putei abyssalis [Ap. 9, 11]. Hae sunt tenebrae Aegypti; licet enim magna lux videretur in eis ex praecedentibus scientiis, tamen omnis exstinguitur per errores praedictos. Et alii videntes, quod tantum fuit Aristoteles in aliis et ita dixit veritatem, credere non possunt, quin in istis dixerit verum.

6. Dico ergo, quo dilla lux aeterna est exemplar omnium, et quod mens elevata, ut mens aliorum nobilium philosophorum antiquorum, and hoc pervenit. In illa ergo primo occurunt animae exemplaria virtutum[32].

         Bonaventura non si contraddice quando sostiene che Dio rivelò ai filosofi nove scienze e li indusse a perseguire la sapienza e la beatitudine e quando afferma, altresì, che, proprio lungo questa via, essi trovarono l’errore. In realtà l’errore non starebbe nell’illuminazione naturale della ragione, universalmente comune a tutti gli uomini a prescindere dal credo, ma nella presunzione e nell’ostinazione dei filosofi stessi nel voler proseguire il cammino con le proprie forze. Le nove scienze devono costituire un mezzo e non si deve presumere che, esclusivamente grazie al loro sostegno, l’uomo possa portare a compimento il proprio destino di medio tra Dio e le creature nel movimento di ritorno al principio.

         Per quanto Bonaventura possa essere ritenuto prudente nel riferire i principali errori dell’aristotelismo, è innegabile che nelle stesse Collationes in Hexaëmeron egli indichi nell’insegnamento del Filosofo la fonte della negazione delle idee esemplari.

         Egli individua, perciò, un motivo di gravissimo demerito nel cammino della ragione e della filosofia verso la verità, rispetto a quanto di buono e di giusto avevano già detto Platone e altri sulla natura divina.

         Piuttosto sembra, a nostro avviso, che Bonaventura abbia inteso far emergere un problema di esegesi relativo all’opera di Aristotele, invitando a una maggiore attenzione nel vaglio delle fonti, senza accettare perentoriamente ciò che gli artistae attribuivano al Filosofo e ritenevano necessario corollario del suo pensiero. Quindi la tesi di Van Steenberghen, secondo la quale Bonaventura avrebbe manifestato la massima prudenza nei confronti di Aristotele nelle conferenze sull’Hexaëmeron, in più confortata da una terminologia vaga e imprecisa (videtur fuisse Aristoteles …, dicunt quod Aristotele hoc sensit …), può essere accettata entro i limiti posti con chiarezza dallo stesso Bonaventura nella medesima opera: Aristotele è un grande filosofo della natura, ma fallisce come metafisico perché nega la causa esemplare, ricercando il principio di tutte le cose da physicus, per questo a lui si deve il linguaggio della scienza, mentre a Platone si deve quello della sapienza.

         Gli errori commessi nel passato dai filosofi, troppo confidenti nel loro sapere, servono da monito per il presente, soprattutto per quanti si ostinano a vedere in Aristotele il principio di ogni verità, arrivando persino a negare che egli avesse sostenuto dottrine così manifestamente e incontestabilmente errate.

         Pertanto Bonaventura rimprovera un atteggiamento assai diffuso e ingenuo, a proposito del quale non possiamo fare a meno di richiamare alla memoria quanto Bacone aveva detto sulla dottrina aristotelica dell’eternità del mondo, convinto che il Filosofo non avesse potuto sostenere alcunché del genere. E’ evidente che mai, come su questa materia, si sia manifestata la diversità di atteggiamento dei due autori francescani, l’uno convinto che l’aristotelismo fosse la filosofia dell’avvenire, l’altro che questo fosse auspicabilmente e definitivamente superabile proprio in quanto filosofia[33].

         Bonaventura distingue in linea di diritto filosofia e teologia, ma di fatto esse risultano inestricabilmente connesse, così come la natura e la soprannatura nella vicenda storica dell’uomo. Nel Breviloquium (I, 1, 3) egli manifesta questa distinzione formale, sostenendo che la teologia parte dalla causa somma, cioè da Dio, ove invece termina la conoscenza filosofica, seguendo il cammino inverso dalle creature al Creatore. Ed è proprio la natura di tale distinzione a confermare la complementarietà di filosofia e teologia positiva, allorché la prima perviene alla verità meno perfettamente di quanto possa fare la fede: la filosofia arriva alla conoscenza dell’unità di Dio come causa prima, ma non può dire nulla circa la sua trinità a meno che questa non sia posta per fede. Quindi ci si trova di fronte a una piena valutazione della filosofia quale tappa del cammino veritativo, di cui lo è anche la fede, in aperta opposizione a quanti, tra gli aristotelici eterodossi, sostenevano la divergenza di filosofia e verità, facendo intendere a loro difesa che la prima fosse un mero esercizio di scuola.

         Sotto questo profilo Bonaventura e Bacone assumono la comune necessità di non frammentare l’unità della sapienza cristiana per non frammentare la verità medesima, ma contrastanti sono le soluzioni da loro proposte. Nel caso di Bacone non si può, infatti, pensare a un semplice esempio di reductio artium ad theologiam, risolvendo così la sua organizzazione del sapere in scienza del divino; questa fu senza dubbio una delle sue intenzioni, data la temperie storica e culturale, ma gli esiti da lui raggiunti confermano, piuttosto, una più pregnante definizione dei contenuti delle scienze particolari che non della teologia.

         Sembra, tuttavia, che il denominatore comune di questi due approcci allo studio della filosofia, stia nel fatto che essa si proponga non come disciplina singolare e determinata, bensì come sintesi di tutto il sapere ove la ragione umana arriva a una nozione certa della verità in quanto indagabile[34]. Il riferimento di Bacone a una enciclopedia del sapere non è affatto nuovo nella cultura medievale, basti pensare a quanto Agostino aveva teorizzato nel De doctrina christiana a proposito dello studio delle arti liberali come propedeutica alla sacra pagina, senza riuscire, peraltro, a realizzare tutto ciò nei fatti. Filosofia e teologia devono, quindi, fondersi nel comune servizio della Scrittura, ma la prima, secondo Bonaventura, deve rimanere, per vocazione e dignità, inferiore al dato rivelato. Pertanto, in Bacone, la cifra “enciclopedica” della filosofia, di origine agostiniana, si fonde con la peculiarità delle ideali finalità extrateoretiche del sapere e con il motivo dell’experientia, mentre in Bonaventura la medesima materia culturale, filosofica e propedeutica viene arricchita dai contributi della teologia monastica, soprattutto di quella vittorina del secolo XII, volta a definire i rapporti simbolici tra Dio e le realtà create. A Bonaventura non interessa tanto precisare i contenuti delle singole discipline della sapienza cristiana, quanto fornire primariamente una loro classificazione ai fini della teologia, come emerge proprio dalle Collationes in Hexaëmeron, dalle Collationes de semptem Donis Spiritus Sancti e dal De reductione artium ad theologiam.

         Se si ritorna alle fonti della tradizione scolastica francescana, si nota che l’interesse della scuola di Oxford per la letteratura filosofica e scientifica greco-araba fu motivato dalla necessità di approfondire le scienze particolari, più che dal desiderio di dare nuovo impulso alla soluzione di questioni metafisiche, mentre nella scuola di Parigi non si diede tanto peso alla fisica, quanto, piuttosto, alla formalizzazione della teologia. Ora, non si deve dimenticare che Bacone si era avvicinato ad entrambi gli indirizzi dell’attività dottrinale francescana, e non solo di quest’ordine, prima come studente e maestro della facoltà delle arti di Parigi, poi, direttamente, come membro dell’ordine, dopo aver meditato il distacco dalla filosofia e dalla teologia tradizionali, una volta tornato in patria.

         Di fatto la necessità di approfondire le singole discipline non esclude, agli occhi di Bacone, il rinnovamento della teologia, per cui gli interessi principalmente metafisici della scuola di Parigi passano attraverso l’attività scientifica della scuola di Oxford, cioè la formalizzazione finale della teologia contempla la definizione delle singole scienze e della filosofia in generale. Bacone si propone questo fine, come cristiano e come francescano, ma ciò non toglie che egli continui a guardare alla teologia da artista. Forse sta anche qui la ragione dell’opposizione bonaventuriana a Bacone, ossia in un motivo di ordine storico e contingente, piuttosto che in una reale contrapposizione di fini. Entrambi guardano, senza alcun dubbio, al primato della teologia, ma Bacone pone l’accento su suo rinnovamento, passando pericolosamente attraverso ciò che deve essere uno strumento, ossia attraverso la filosofia.

         Come gli averroisti, (ove il termine è da intendersi in senso traslato e non nel suo significato tecnico), pretendevano di fare filosofia da filosofi, così Bacone pretende di fare teologia continuando ad essere insieme francescano e filosofo. Tale atteggiamento viene, così a smentire nei fatti la subordinazione della filosofia alla maestà della teologia e si avvicina in modo troppo sospetto ai metodi dell’aristotelismo eterodosso. Con ciò non si vuole risolvere l’opposizione dottrinale in opposizione di ruoli, ma, a nostro avviso, non si potrebbe intendere tale duplice indirizzo della sapientia christiana se non si facesse appello non solo al rapporto filosofia-teologia, ma anche al conflitto, ormai palese, tra “filosofi” e teologi, in più aggravato dalle tensioni presenti tra i frati minori nel caso in questione.

         Tale conflitto dottrinale, inoltre, si propone insidiosamente agli interpreti, data l’estrema labilità dei riferimenti reciproci dei due autori: come Bacone non allude a Bonaventura se non contestando la teologia tradizionale, così Bonaventura non allude a Bacone se non combattendo l’infedeltà spirituale e dottrinale di taluni membri dell’ordine, denunciando gli errori dell’aristotelismo e di coloro che ne seguono le orme.

         I frequenti richiami di Bonaventura all’osservanza stretta della regola all’interno dell’ordine confermano l’interpretazione storica del conflitto con Bacone; non si dovrebbero, infatti, dimenticare gli attacchi del clero secolare agli ordini mendicanti, a partire da quello di Guglielmo di Saint-Amour nel 1255, cui risposero sia Tommaso d’Aquino che Bonaventura, e questi possibilmente paventava una nuova serie di polemiche e di accuse. Se gli attacchi precedenti agli ordini mendicanti riguardavano principalmente il loro ruolo nella vita della Chiesa e, più universalmente, le forme della vita religiosa, ora non si poteva consentire che altri attacchi fossero mirati a colpire il francescanesimo nel suo nucleo spirituale e dottrinale. Per questo Bonaventura antivede la perniciosità di dottrine filosofiche estranee alla fede cristiana e ne denuncia gli errori con perizia, al contrario di molti contemporanei, anticipando così le sanzioni parigine del 1270 e del 1277. pertanto non si deve omettere che l’ordine dei predicatori fu assai colpito dalle condanne di Stefano Templer, nonostante gli interventi precedenti di san Tommaso, mentre i francescani rimasero ai margini del conflitto universitario, altresì divisi da questioni interne.

         La considerazione della teologia da parte di Bonaventura e di Ruggero Bacone non può, inoltre, prescindere dal ruolo assunto dalla Sacra Scrittura e dal rapporto tra testo sacro e scienza teologica.

         Bacone fa del ritorno alla Scrittura uno dei cardini della sua riforma degli studi. Tale reditus passa attraverso una revisione dell’esegesi del testo sacro e attraverso la conoscenza delle lingue in cui esso è stato redatto, ossia del greco e dell’ebraico.

         Nondimeno Bonaventura propone nel prologo del Breviloquium una teoria della Sacra Scrittura, distinguendone i quattro sensi tradizionali (letterale, topologico, allegorico e anagogico), in ordine alla profondità della medesima. Egli indugia con maggiore insistenza su tali criteri esegetici nelle Collationes in Hexaëmeron, sottolineando, ispirato dal senso tipologico gioachimita, la corrispondenza storica tra Vecchio e Nuovo Testamento, che giustifica la possibilità di prevedere “scientificamente” eventi della nuova età sulla scorta di quelle precedenti. Ma ciò che più giova è vedere come Bonaventura insista sulla necessità che ogni forma di sapere, anche nella sua organizzazione disciplinare e scolastica, debba partire dalla Sacra Scrittura per passare attraverso lo studio dei Padri e delle summae magistrorum sino alla filosofia non cristiana, evitando il più possibile le insidie dell’errore irrazionale, qualora ci si scosti dalla via più comune d’interpretazione[35].

         Ciò che differenzia essenzialmente l’esegesi bonaventuriana da quella baconiana, come la stessa valutazione della teologia in ordine alla rivelazione, è la proposta dei fondamenti e del metodo. Come giustamente sottolinea F. Corvino, l’esegesi di Bonaventura presenta, per molti aspetti, “caratteri di modernità ignoti o incompresi da Ruggero Bacone”[36]. Tuttavia, senza parlare di “modernità”, si potrebbe parlare di maggiore coerenza epistemologica; infatti Bacone assimila l’esegesi biblica all’insegnamento teologico e pensa che la quaestio debba essere introdotta nel corso della stessa lectio sulla Bibbia, mentre Bonaventura, a partire dal suo maestro Alessandro di Hales, ritiene che Scrittura e scienza teologica siano distinte nella forma e, quindi, nella proposta d’insegnamento e di apprendimento, ove la prima fa uso dell’esposizione, la seconda dell’argomentazione.

         Bacone condanna coloro che pretendono di conoscere la teologia “leggendo” il Liber Sententiarum di Pietro Lombardo e utilizzandone i commenti posteriori, ma trascura il fatto che questi testi non pretendono in alcun modo di sostituire la rivelazione, né di inficiarla, bensì assumono la distinzione tra ciò che essa dice e ciò che si può dire intorno ad essa. Bonaventura insiste, pertanto, sulla maggiore importanza del senso letterale, dopo aver avvertito i pericoli di un indiscriminato allegorismo e, proprio grazie a tale presa di posizione, egli manifesta una maggiore fedeltà al potere dichiarativo e illustrativo della Scrittura, più di quanto avrebbero potuto fare Bacone e gli altri “questionasti”, inserendo nella semplice lectio, bastante a se stessa, i procedimenti argomentativi della quaestio.

         Come si è già sottolineato a proposito della seconda parte dell’Opus maius, dedicata alla filosofia e ai suoi rapporti con le altre scienze e, in particolare, con la teologia, Bacone sostiene che la filosofia deve fornire i metodi di prova della fede cristiana, i cui articoli sono i principi della teologia. Egli intende giustificare il ruolo della filosofia in seno alla sapienza cristiana, attribuendole un fine, ossia le prove dei principi della teologia e sviluppando, ad un tempo, uno dei punti fondamentali del francescanesimo primitivo: l’utopia della pace da realizzarsi con la conversione degli infedeli, mediante l’esempio della perfezione evangelica e non con la coazione delle armi.

         L’evangelizzazione si diffonde, secondo bacone, grazie alla forza persuasiva della ragione ed è inevitabile che ad essa corrisponda l’analoga estensione della sapientia christiana.

         E’ manifesto, pertanto, come la chiave del rapporto filosofia-teologia, o meglio del rapporto artes-teologia, stia nell’intento apologetico e nella necessità di razionalizzare i dati della rivelazione. Nell’opera di Bacone tale ispirazione è assai evidente, perché la conversione degli infedeli e la repressione dei reprobi si conseguono grazie a ciò che è comune a tutti, ossia grazie alla ragione. Date queste premesse lo studio delle scienze dei pagani e degli infedeli costituisce la migliore arma apologetica, restituendo le medesime artes ai legittimi proprietari e fruitori in seno alla cristianità.

         Bonaventura, al contrario, pur pensando che il discorso teologico debba rivolgersi con argomenti necessari agli avversari della fede, ritiene che tale non sia la sua finalità precipua, dal momento che esso si rivolge anche a coloro che hanno una fede oscillante, come a coloro che hanno una fede perfetta, secondo quanto afferma nel proemio del Commento alle Sentenze.

         In conclusione, se per Bacone l’intento apologetico viene perseguito dallo studio e dalla ricerca filosofica, invece per Bonaventura viene perseguito dal discorso teologico, razionalmente e formalmente coerente, pur non prescindendo dalla guida e dall’illuminazione essenziale della fede. Tuttavia la distinzione metodologica tra filosofia e teologia non impedisce a Bonaventura di sottolineare in re la loro collaborazione, ma a differenza del suo confratello, egli ha il merito di scorgere in tale continuità il segno del distacco e dell’errore, quello di una ragione che procede autonomamente, lungo i sentieri di una vana curiositas estranea all’amore di Dio.

 

III.6  Morale e filosofia

 

         Ai fini del presente lavoro non interessa tanto illustrare i contenuti della morale bonaventuriana, facendo riferimento alla sua antropologia e, conseguentemente ai singoli punti della dottrina sulla coscienza e sul libero arbitrio, per non trascurare poi l’analisi delle virtù e del peccato, ma giova piuttosto giustapporre morale e filosofia, mostrando come e perché Bonaventura avesse inserito la morale come disciplina nei ranghi della filosofia. Egli, pur proponendo una classificazione delle scienze, non indugia sulla medesima e tantomeno sulla filosofia morale in sé e per sé; infatti, dal momento che ogni scienza è ordinata alla teologia e la teologia è ordinata alla salvezza, ciascuna ars si presenta come riflesso dell’illuminazione divina, gerarchicamente ordinata, sia come tappa verso il raggiungimento del fine morale soprannaturale.

         Pertanto il sapere ha carattere eminentemente morale, qualora sia inteso nella sua accezione più ampia, perché deve adempiere al compimento ultramondano del destino dell’uomo. L’opera in cui Bonaventura affronta con una certa sistematicità il discorso sull’etica è la raccolta delle Collationes de decem praeceptis. In queste sette conferenze, tenute durante la quaresima del 1267, egli considera l’origine della morale a partire dal paradigma dei dieci comandamenti, con l’intento di ricondurre ciascuno di essi alla giustizia naturale e alla legge di natura, sia nei nostri rapporti verso Dio sia in quelli verso il nostro simile. I precetti divini non costituiscono, in quanto rivelati da Dio, un complesso di leggi positive, giacché la rivelazione di essi è la specificazione di norme innate, già presenti nella ragione umana. Da ciò emerge chiaramente come l’origine della morale, nella teoria e nella prassi, sia comprensibile alla luce di quanto lo stesso Bonaventura dice a proposito della natura della conoscenza umana, inserendosi così nel più vasto contesto della sua dottrina psicologica.

         Come esiste una conoscenza e una volizione innata del Bene, sebbene l’uomo non ne abbia immediata consapevolezza, così esistono nella nostra coscienza i primi principi della morale. La rivelazione ha il compito di manifestare la conformità della ragione e della volontà a tali principi, per cui essa ha la funzione precipua di dare forma a una materia già esistente, ma che non è in grado di esplicitarsi autonomamente. Pertanto i precetti del decalogo non sono affatto diversi dalla legge di natura, anzi sono la stessa legge di natura e costituiscono inoltre gli assiomi, o primi principi, dell’etica.

         Bonaventura, rifacendosi ad Aristotele, considera l’etica come una scienza, fondamento di tutte le leggi particolari, che ad essa devono rifarsi, quali esplicitazioni della norma naturale e divina[37].

         Dio è padre della natura e delle sue leggi, così come è fonte di ogni dono della rivelazione; dall’unico padre devono pertanto promanare sia la legge di natura che la legge positiva, rimanendo in questo modo priva di necessità la distinzione tra morale naturale e morale rivelata. Se esiste una morale naturale contrapposta alla morale rivelata del cristianesimo è perché la prima promana dall’errore, ossia dalla fondamentale deviazione della ragione e della volontà, ma non perché la ragione sia costitutivamente contrapposta alla rivelazione.

         Se Bacone si esprime con tutta la chiarezza desiderabile a proposito dei rapporti della moralis philosophie con tutte le altre scienze della Summa, senza indugiare sulle singole discipline, al contrario Bonaventura non ritiene necessario vagliare alcuna relazione, perché esse sono già consolidate all’interno della tradizione. Bacone accentua l’insistenza sulla filosofia morale, dal momento che propone una nuova organizzazione del sapere e deve dare ragione della classificazione presentata. Bonaventura, invece, non pensa affatto a una riforma che non sia concepita se non come ritorno fedele alla sapienza cristiana della sacra pagina, dei Padri e dei maestri di teologia, per cui ritiene sia un compito superfluo precisare i rapporti tra le singole discipline, se non evidenziando da ultimo la loro riduzione alla teologia.

         Egli continua il discorso iniziato nelle collationes del 1267, occupandosi successivamente dell’agire morale, cioè della pratica delle virtù, la quale è complemento essenziale della legge di natura, esplicitata attraverso i precetti del decalogo. Proprio nelle Collationes de septem Donis Spiritus Sancti del 1268, egli affronta la trattazione di questi “doni”, che soli ci consentono di concretare la legge morale. A tale riguardo Bonaventura non ritiene in alcun modo di poter assimilare l’etica pagana a quella cristiana, perché la prima è la culla dell’errore, procedendo autonomamente dal concorso di fede e ragione, sostenuto dall’etica cristiana. Ed è proprio di questo che Bacone sembra non avvedersi: se per lui esiste una rivelazione ab origine nella storia dell’umanità, di cui la ragione dei filosofi antichi ne è, in certo qual senso, la conferma, allora non si dovrebbe rimanere meravigliati di fronte agli esempi di virtù dei pagani, anzi si dovrebbe accoglierli e farli propri.

         Per Bonaventura le virtù, analogamente al sommo Bene, non sono dell’individuo e nemmeno del vir christianus, ma esse vengono concesse gratuitamente quale dono di Dio, Padre dei lumi, ed è accogliendo tale verità che il cristiano attua concretamente una delle sue precipue virtù, ossia l’umiltà. Al contrario il peccato, cioè l’azione malvagia, è intera responsabilità dell’uomo, a partire dallo stesso peccato originale, che è disordine della giustizia originaria e privazione della pace; in un certo qual senso i peccati attuali sono la conferma dello status dell’uomo nella storia; ed è singolare che, in un contesto del genere, ove il male implica responsabilità e il bene implica la conferma della grazia divina, Bonaventura si appelli ad Aristotele: philosophus considerat vitium in quantum dicit deordinationem[38], ove la citazione è semplicemente la premessa o il pretesto per una considerazione teologica. Disonorando Dio con l’inosservanza delle sue leggi, l’uomo deve sottostare alla punizione divina, cioè deve accettare il castigo quale effetto della colpa di essere uscito dall’ordine.

         L’offesa è infinita per l’infinitudine della maestà divina, tanto più dovrà essere infinita la pena, in altri termini questa dovrà essere eterna, non potendo essere infinita in intensità. Poste tali premesse, Dio, se vuole trasformare un’anima, deve ricorrere all’intervento della grazia, che libera dalla schiavitù del peccato e del demonio.

         Il termine “filosofia” ha per Bonaventura due significati, benché il primo non sia esplicitamente illustrato; infatti, come la maggior parte dei maestri di teologia e della facoltà delle arti, egli attribuisce al termine una valenza storico-convenzionale, intendendo la filosofia in generale non come itinerarium in veritatem, bensì come dottrina dei filosofi e dei pensatori pagani. Su tali basi egli risulta, pertanto, concorde con quanti, tra gli aristotelici eterodossi e lo stesso Bacone, asserivano l’importanza primaria dell’indagine filosofica; ma evidentemente occorre distinguere tali diverse posizioni in merito alle rispettive conclusioni che ne vengono tratte.

         Infatti l’accezione storica e “convenzionale” della filosofia viene integrata e perfezionata da quella teoretica, secondo l’esposizione della teologia della storia di Bonaventura. Aristotele, quindi, può e deve essere considerato un semplice filosofo, mentre i santi e i dottori della Chiesa meritano sia il titolo di filosofi, quando indagano con la ragione naturale, sia quello più nobile di teologi, allorché procedono lungo il cammino veritativo dietro la guida dell’illuminazione divina e della fede. Così la filosofia non è dominio esclusivo dei filosofi pagani, ma sia Bonaventura che Bacone, riprendendo un tema agostiniano, assumono che questa debba essere loro sottratta tamquam iniustis possessoribus.

         A questo punto emerge distintamente il secondo significato o valenza del termine filosofia, cui Bonaventura accenna più volte, senza sostanziali ripensamenti, nel Commento alle Sentenze come nel De reductione artium ad theologiam. La scienza filosofica è veritatis ut scrutabilis notizia certa[39], ma viene anche considerata come lume interiore:

Tertium lumen, quod illuminat ad veritates intelligibiles perscrutandas est lumen cognitionis philosophicae, quod ideo interius dicitur, quia interiores causa set latentes inquirit, et hoc per principia disciplinarum et veritatis naturalis, quae homini naturaliter sunt inserta[40].

         Da queste e altre definizioni si inferisce che la filosofia è opera dell’intelligenza naturale comune a tutti gli uomini, in quanto dono divino non speciale che consente di acquisire, a partire dal senso e dall’esperienza, nel corso del tempo, sia verità intorno alle creature sia verità circa la natura divina, ma sempre a partire dal mondo creato.

         Riducendo la filosofia alla sola attività dell’intelletto speculativo, il quale opera secondo meccanismi necessari, dando l’assenso all’evidenza dei sensi o all’argomentazione rigorosa, Bonaventura mostra i limiti della ragione umana, guida della filosofia.

         Non vi è solo l’intelletto speculativo, ma vi è anche l’intelletto pratico, così come la ragione compie perfettamente la sua opera grazie alla volontà. La prima implica coazione, la seconda piena libertà nella volizione del Bene supremo, pur attraverso la volizione dei beni mutevoli; per questo il libero arbitrio, nel concorso di ragione e volontà, è assolutamente immune da coazione: la volontà viene illuminata dalla ragione e la ragione, grazie alla volontà, porta a buon fine le azioni. Così si esemplifica l’armonia delle potenze e delle funzioni dell’anima umana nella sua integrità, motivo per cui la filosofia non rappresenta che una parziale quota della sua attività.

         Bonaventura propone una classificazione delle scienze in seno alla filosofia con una divisione non arbitraria, ma corrispondente all’intima comunione tra la ragione umana e la verità delle cose. La scienza filosofica si divide, perciò, sommariamente in nove discipline, a loro volta raggruppate in tre parti: la filosofia naturale, che indaga la veritas rerum e abbraccia fisica, matematica, metafisica, la filosofia razionale, che si occupa della veritas sermonum e comprende grammatica, logica e retorica, la filosofia morale, che si occupa della veritas morum e comprende la morale individuale, domestica e politica[41].

         Nelle Collazione in Hexaëmeron egli riprende sostanzialmente la classificazione del De reductione artium ad teologiam, tuttavia modifica la divisione della filosofia morale, sempre distinta in tre parti, ma secondo lo schema aristotelico delle virtù ordinarie o etiche, delle attività conformi alle speculazioni intellettuali, o virtù dianoetiche, e delle virtù connesse con la giustizia e le leggi politiche.

         A questo punto sorge un interrogativo, ossia come è possibile che la scienza filosofica, facente capo all’intelletto speculativo, includa la filosofia morale altrove definita come scienza autonoma?[42] In realtà il fatto che la scienza filosofica faccia capo all’attività dell’intelletto speculativo costituisce la condizione necessaria perché una scienza sia inclusa nel quadro della filosofia. Si è, infatti, posto l’accento in precedenza sull’intelligenza naturale che governa l’indagine filosofica, quella stessa intelligenza che dirige, anche in questo caso, la volontà. La scienza morale ha, pertanto, origine nella ragione, come tutte le altre scienze filosofiche, ma si differenzia dalle altre per il fatto che la ragione induce ulteriormente la parte affettiva, cioè la volontà, ad operare. Nell’operazione conseguente, e non nella sua fonte, la morale acquisisce autonomia, giacché essa procede in modo differente rispetto alle altre scienze.

         In questo senso Bonaventura pone la morale entro i ranghi della scienza filosofica, data la comune causa razionale, mentre Bacone giustappone moralis philosophia e teologia, perché la prima è l’unica scienza a perseguire il medesimo fine della teologia, ossia la salvezza. La considerazione bonaventuriana è, quindi, nell’ordine delle cause motivae, quella di Bacone è, invece, nell’ordine dei fini.

         La concezione baconiana della teologia è piuttosto labile, qualora la si confronti con le argomentazioni che Bonaventura sviluppa intorno ad essa per precisarne la natura e i contenuti. Di fatto ciò che emerge della teologia di Bacone è che essa è soprattutto scienza pratica, poiché è guida alla salvezza, ma che è anche scienza integrata nell’indagine filosofica attraverso la metafisica. Bacone insiste sulla teologia perfecta, cioè sulla compiutezza del sapere contenuto nella teologia, sapere che non è presente alla ragione umana in tutta la sua perfezione, ma che la filosofia è in grado di disgelare progressivamente.

         Bonaventura non presume, invece, che si possa parlare dei teologia perfecta, se non facendo riferimento alla conoscenza che Dio ha di se stesso, quale causa di tutte le cose; tale forma di sapere è virtualmente inaccessibile alla mente umana, per cui la teologia viene sempre considerata secondo le potenzialità dell’uomo, quale tappa non definitiva del cammino della conoscenza. Da una parte esiste, quindi, la mente divina che possiede perfettamente il sapere nelle idee esemplari non distinte dalla sua essenza, dall’altra vi è un ordinamento gerarchico di livelli veritativi, dove la teologia è certamente superiore alla filosofia, ma non è ancora condizionata da speciali doni dello Spirito Santo.

         Bonaventura è sempre molto attento nel non confondere natura e soprannatura, umano e divino, nell’ordine delle conoscenze, anche se i due piani sono destinati a intersecarsi nella vicenda storica dell’uomo; egli mette in guardia dalle tentazioni di chi vorrebbe assolutizzare la ragione e la conoscenza, di cui l’uomo non si dovrebbe mai gloriare e tanto più in conseguenza della sua caduta.

Verum est, quod scientia philosophica et teologica est donum Dei; proprie vero est donum Dei scientia gratuita; scientia vero gloriosa non tantum est donum, sed etiam praemium … Iob: Nunquid nosti semitas nubium, semitas magna set perfectas scientias? Dicit semitas magnas, id est scientiam philosophicam et theologicam, quae dicuntur magnae semitae, quia multas scientias comprehendunt; semitas perfectas dicit quantum ad scientiam gratuitam et gloriosam[43].

         Così, riferendosi a un versetto del libro di Giobbe, (Giob. 37, 18), egli si esprime chiaramente a proposito della scienza teologica. Il sapere filosofico e quello teologico sono metaforicamente definiti come grandi sentieri per l’ampiezza delle discipline coinvolte, ma sentieri perfetti sono la scienza gratuita e quella gloriosa. Tale distinzione non comporta, peraltro, assenza di continuità tra le diverse forme del sapere, ma essa viene piuttosto esplicitata in modo differente rispetto a quella dell’enciclopedia baconiana. L’unità ideale di tutte le scienza funge, per Bacone, da obiettivo estrinseco per garantire la continuità intrinseca delle discipline coinvolte nel nuovo quadro della riforma. L’unità delle scienza dell’uomo è cifra dell’unione dei cristiani nella respublica fidelium, motivo per cui essa si manifesta essenzialmente attraverso il concetto di utilitas, che richiama finalità storiche ed extrateoretiche.

         In Bonaventura, al contrario, l’unità del sapere è cifra della reductio in Deum e, quindi, di una concezione mistica e teoretica della sapienza cristiana.

         Solo in senso lato la teologia viene assimilata alla sapientia, ma nello specifico essa si intende come indagine razionale intorno agli articoli di fede, per cui essa, in tale direzione, si limita a rinvigorire la fede e la sapientia christiana tra gli uomini. Senza indugiare sui diversi significati attribuiti al termine sapientia, si può tuttavia individuare il loro denominatore comune: l’oggetto di essa è Dio nella sua verità infinita, quale sommo Bene, prima causa e ultima destinazione di tutta la realtà, e tale sapienza impegna l’uomo nella sua integrità.

         Il ritorno all’originario paradigma della gnosi cristiana costituisce, pertanto, una tensione peculiare del movimento francescano, tensione già avvertita nel pensiero di Bacone. La peculiarità del ritorno all’antico ideale di saggezza, altresì ispirata dalla diffusione del gioachimismo, è ormai il segno della manifesta opposizione di talune personalità e movimenti a quanti intendono ridurre l’uomo alla sola ragione.

         Secondo l’esposizione bonaventuriana le scienze speculative e le scienze pratiche impegnano solo una parte dell’anima; le prime riguardano l’intelletto speculativo, le seconde riguardano l’intelletto che estende la propria influenza alla sfera affettiva e all’azione, così entrambe le scienze danno luogo al sapere filosofico. Ma per considerare l’anima nella sua totalità occorre fare riferimento a un sapere qualitativamente superiore; si può parlare, quindi, di teologia in un duplice senso, cioè sia come esplicitazione dell’intellectus fidei sia come sapientia.

         La teologia è intellectus fidei se corrobora la fede sul piano razionale, ma in senso lato essa è sapientia perché è conoscenza generata dall’anima, nella sua integrità di ragione e volontà, quindi nel pieno rispetto del libero arbitrio. E’ pertanto evidente come la divisione delle scienze e le loro relazioni, nonché la gerarchia dei gradi di conoscenza, siano funzione della dottrina psicologica elaborata da Bonaventura. Le singole facoltà dell’anima vengono “ridotte” alla sua essenza divina, dalla quale promana la sapientia analogamente le scienze speculative e le scienze pratiche, che compongono la filosofia, devono essere ridotte, quali espressioni di facoltà distinte, a quella theologia intesa come sapienza, ove è operante la fede.

         Così neanche Bonaventura può sottrarsi all’esigenza di distinguere le connotazioni del termine theologia. Se Bacone, come Sigieri di Brabante, pensa sia a una teologia come pars philosophiae, sia a una teologia come Sacra Scrittura, invece Bonaventura formula tale distinguo non sulla scorta dell’oggetto di conoscenza, ma in base a precisi riferimenti psicologici del soggetto che arriva a tale sapere. Esiste, pertanto, una teologia quale attività dell’intellectus fidelis, prevalentemente attiva sul piano razionale a partire dagli articoli di fede, ed esiste anche una teologia quale sapienza tratta dall’essenza dell’anima, imago Dei.

         Se il denominatore comune delle diverse forme di sapere è l’anima nelle sue molteplici attività, allora la contrapposizione non è tra teologia-sapienza e la filosofia, bensì tra sapientia christiana e sapientia mondana.

Ista tota sollecitudine quaerit delectari in omni suavitate, in affluentia divitarum saecularium et in experientia sensualium delectationum et in excellentia sive in ambitione saecularium pompositatum[44].

         Come nell’anima il disordine è provocato dal peccato, così nella conoscenza e nel sapere il disordine è, nella sua origine, di natura psicologica e conseguentemente morale; la deviazione intellettuale e dottrinale non è altro che l’effetto necessario di un disordine psicologico così configurato.

           

 



NOTE

 

[1] C. BĖRUBĖ, Le «dialogue» de saint Bonaventure et de Roger Bacon, «Collectanea Franciscana», 39 (1969), pp. 62-63.

[2] “Oggi si moltiplicano gli studi adulterini, mentre molti, che dovrebbero essere utili alla Chiesa, abbandonato lo studi principale della Sacra Scrittura, che è signora di tutte le scienze, accesi dalla fiamma di una curiosità perniciosa, indugiano nelle scienza filosofiche degli Egiziani, ancelle della Scrittura canonica … e ciò appare massimamente esecrabile giacché lo fanno coloro che, secondo la professione della loro condizione e del loro ordine, sono e devono essere sposi della Sacra Scrittura”: v. S. Bonaventurae Collationes in Hexaëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, ed. F. DELORME, Ad Claras Aquas 1934, visio I, coll. I, 6, pp. 58-59, ove la reportatio è più breve di quella dell’editio maior del 1891.

[3] J. HACKETT, Practical Wisdom and Happiness in the Moral Philosophy of Roger Bacon, «Medioevo», 12 (1986), pp. 55-109; in particolare si veda pp. 92-109 in merito ai rapporti indiretti con Sigieri di Brabante, Boezio di Dacia e Dante.

[4] V. Sigieri di Brabante, Quaestiones in metaphysicam, ed. W. DUNPHY, Editions de l’Institut supérieur de Philosophie, Louvain 1981 (Philosophie Médiévaux, XXIV), 358-361 (riportato da HACKETT, cit., p. 94 nota 79).

[5] “Quando ero studente, sentii qualcosa intorno ad Aristotele, giacché egli aveva sostenuto l’eternità del mondo; e quando udii le ragioni e gli argomenti che venivano formulati al riguardo, cominciò ad agitarsi il mio animo e cominciò a pensare: come ciò può essere? Ma ora queste cose sono così evidenti, che nessuno ne può dubitare”: Collationes de decem praeceptis, coll. II, 28 in Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1891, vol. V, p. 515.

[6] F. VAN STEENBERGHEN, La philosophie …, cit., pp. 234-235.

[7] V. J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, ed. italiana a cura di L. Mauro, trad. di M. Montelatici, Nardini, Firenze 1991, pp. 258-303.

[8] Collationes in Hexaëmeron, coll. VII, 1 (V. 365a).

[9] Cfr. J. BOUGEROL, Dossier pour l’étude des rapports entre saint Bonaventure et Aristote, «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», 40 (1973), pp. 199-215 e p. 220.

[10] J. RATZINGER, cit., p. 273.

[11] De reductione atrium ad theologiam, 7 (V, 322a).

[12] Collationes in Hexaëmeron, Coll. XVII, 28 (V. 414b); il riferimento alla tentazione di Cristo e alla sua risposta di trova in Mt. 4, 4.

[13] Cfr. Collationes in Hexaëmeron, coll. VII, 13 (V, 376b): Fides ergo sola divisit lucem a tenebris.

[14] M. D. CHENU, La teologia come scienza nel XIII secolo, Jaca Book, Milano 1985, p. 78.

[15] “Il credibile, infatti, in quanto ha in sé la natura della prima verità, a cui la fede dà il suo assenso per sé e sopra tutto il resto, riguarda l’abito della fede; in quanto, oltre la natura della verità, aggiunge la natura dell’autorità riguarda la dottrina della Sacra Scrittura … ma in quanto, oltre la natura della verità e dell’autorità, aggiunge la natura della dimostrabilità riguarda la materia di questo libro, nel quale vengono illustrate le ragioni che provano la nostra fede”: In I Sententiarium, prologo, q. I, ad 5um (brano riportato da M. D. CHENU, cit., p. 165).

Cfr. Breviloquio, prologo, 6, 5-6 e I, 1-4 in: Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario dell’anima a Dio. Breviloquio. Riconduzione delle arti alla teologia, a cura di L. MAURO, Milano, Rusconi 1985, pp. 116-119.

[16] M. D. CHENU, cit., p. 81.

[17] Cfr. Collationes in Hexaëmeron, coll. I, 14 (V. 332).

[18] Ibidem, coll. III, 8 (V, 344) dove Bonaventura esprime la relazione intima tra Dio e le cose con la formula adaequatio intellectus et rei intellectae, l’intelletto è quello divino che è causa rei e non quello umano qui non est causa rei.

[19] Sulla teoria della verità di san Bonaventura si veda F. CORVINO, La teoria della verità di San Bonaventura, in Atti del XIV Convegno di Studi del Centro di Studi sulla spiritualità medievale di Todi, Todi 1974, pp. 279-304.

[20] E. GILSON, Le christianisme et la tradition philosophique, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 30 (1941-42), pp. 249-266, [citato da E. BETTONI, I rapporti tra ragione e fede nel secolo XIII e nel secolo XIV, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 66 (1974), p. 779].

[21] E. BETTONI, I rapporti …, cit. pp. 776-781.

[22] Cfr. J. RATZINGER, cit., pp. 234-258.

[23] V. E. BETTONI, I rapporti …, cit., pp. 795-804.

[24] Breviloquium, II, 12, 5, ed. Rusconi, p. 173.

[25] V. Collationes de septem Donis Spiritus Sancti, coll. IV, 3-5, a cura di E. MARIANI, L.I.E.F., Vicenza 1985, pp. 107, 190 (anche in Opera omnia, V, 474).

[26] Collationes in Hexaëmeron, coll. III, 24 (V, 347a).

[27] “Senza questa luce connaturale l’uomo non ha niente, né la fede, né la grazia, né la luce della sapienza; e pertanto è anche divisa la luce dalle tenebre”: ibidem, coll. III, 25 (V, 347°).

[28] Collationes de septem Donis …, coll. IV, 5, ed. L.I.E.F., p. 109 (anche in Opera omnia, V, 474b).

[29] “Chi confida nella scienza filosofica e si stima a causa di essa e crede di essere migliore degli altri, diventa stolto, allorché crede di conoscere il Creatore attraverso questa scienza senza una luce superiore che intervenga; come se uno pretendesse di vedere il cielo o il sole al lume delle candele … La scienza filosofica è la via per arrivare alle alter scienze; ma chi vi si vuole fermare cade nelle tenebre”: ibidem, coll. IV, 12, ed. L.I.E.F., pp. 115, 117 (anche in Opera omnia, V, 475-476).

[30] Cfr. C. VASOLI, San Bonaventura filosofo francescano, in Atti del XIV Convegno di Studi del Centro di Studi sulla spiritualità medievale di Todi, Todi 1974, p. 38 e sgg. Dove l’autore accentua l’opposizione tra Bonaventura e Bacone.

[31] “I filosofi diedero queste nove scienze e furono illuminate. Infatti Dio le ha loro rivelate [Rom. 1, 19]. Dopodichè vollero arrivare anche alla sapienza e la verità li traeva seco; promisero così di concedere la sapienza, cioè la beatitudine, ossia il compimento dell’intelletto, lo promisero, dico, ai loro discepoli”: Collationes in Hexaëmeron, coll. V. 22 (V, 375b).

[32] “Costoro, dunque, caddero negli errori e non furono separati dalle tenebre; questi sono errori gravissimi. Né ancora sono chiusi con la chiave nel pozzo abissale [Ap. 9, 1]. Queste sono le tenebre dell’Egitto; infatti, sebbene fosse vista una gran luce in questi filosofi, per le scienze precedenti, tuttavia ogni luce viene estinta per tali errori. Ma altri, vedendo che Aristotele fu tanto grande nelle altre scienze e disse in tal guisa la verità, non possono credere che in questo non abbia detto il vero.

         6. Dico, perciò, che quella luce eterna è l’esemplare di tutte le cose e che la mente elevata, come quella di altri nobili filosofi antichi, giunse a questo. In quella luce di manifestano primariamente all’anima gli esemplari delle virtù”: ibidem, coll. VI, 5-6 (V, 361b).

[33] Cfr. E. BETTONI, L’aristotelismo di Ruggero Bacone, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», (58) 1966, pp. 553-554.

[34] V. L. MAURO, Bonaventura da Bagnoregio. Dalla philosophia alla contemplatio, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 1976, pp. 46-50.

[35] Collationes in Hexaëmeron, coll. XIX, 6-15 (V, 421-422).

[36] F. CORVINO, Bonaventura da Bagnoregio francescano e pensatore, Dedalo, Bari 1980, p. 128.

[37] Collationes de decem praeceptis, coll. I, 1 (V, 507a); la conferenza prende anche spunto da una citazione di Aristotele dal secondo libro della Fisica, ove si dice che è il fine nell’ambito morale a muovere e guidare l’azione di chi opera: Et est hic rictus ordo, quia finis movet agentem, ut se exerceat in debitum finem. E’ singolare come Bacone fosse andato più avanti, traendo spunto dal finalismo aristotelico; egli evidenzia, infatti, il primato relativo della filosofia morale sulle altre scienze; le conclusioni di queste sono i principi di quella, poiché è il fine, ossia la morale, a imporre necessità alle cose che lo riguardano; cfr. Opus maius, trad. BURKE, p. 72.

[38] “Il Filosofo considera il vizio come una certa qual insubordinazione”: Collationes de septem Donis …, coll. I, 14, ed. L.I.E.F., p. 41 [cfr. Aristotele, De interpretatione, 14 (23a-b)].

[39] Ibidem, coll. IV, 5, ed. L.I.E.F., p. 109 (anche in Opera omnia, V, 474b).

[40] “Il terzo lume, che illumina per indagare le verità intelligibili, è quello della conoscenza filosofica e viene detto interiore, perché ricerca le cause interne e nascoste e lo fa attraverso i principi delle discipline e della verità naturale, che sono per natura insiti nell’uomo”: De reductione artium ad thelogiam, 4 (V, 320b).

[41] Vedi ibidem, 4 (V, 320-321); cfr. Collationes de septem Donis …, coll. IV, 6-11 (V, 474-475) e Collationes in Hexaëmeron, coll. IV-V (V, 349-359).

[42] Vedi F. CORVINO, cit., p. 314.

[43] “E’ vero che le scienze filosofica e teologica sono dono di Dio; ma in senso proprio è dono di Dio la scienza gratuita; invero la scienza gloriosa non è soltanto dono di Dio, ma anche premio … Giobbe: Sai tu forse le vie delle nubi, i grandi sentieri e le scienze perfette? Dice, i grandi sentieri, cioè le scienze filosofica e teologica, che vengono chiamate grandi sentieri perché comprendono molte scienze; dice, perfetti sentieri quanto alle scienze gratuita e gloriosa”: Collationes de septem Donis …, coll. IV, 4, ed. L.I.E.F., p. 109 (anche in Opera omnia, V, 474).

[44] “Questa [la sapienza mondana] ricerca con tutta sollecitudine il piacere in ogni dolcezza, nell’abbondanza delle ricchezze mondane, nell’esperienza dei dialetti sensuali e nell’eccellenza e ambizione della pompa secolare”: ibidem, coll. IX, 2, ed. L.I.E.F., p. 237 (anche in Opera omnia, V, 499).